scena dal film 'Chocolat', Juliette Binoche e Johnny Depp

La scossa

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L’otto marzo pubblicavo l’ultimo post prima di questo. Oggi è il 5 maggio, come al solito mi sto dimostrando incostante.

In realtà un motivo ce l’ho, questa volta, per non aver scritto in – praticamente – due mesi, e pure bello grosso. Ma non ne parlerò. Questo è un po’ il guaio dell’essere un personaggio pubblico (una sorta di): se dai in pasto la cosa sbagliata, diventa un casino.

Dunque, allontanate pure le congetture dalle vostre menti, che tanto sarebbe assolutamente inutile perché non vi dico niente, e passiamo al punto dove vi voglio portare.

Quanto siete cambiati dentro?

In inglese, la sveglia dal torpore si dice wake-up call.

La wake-up call è la scossa, un campanello d’allarme, il segnale che è ora di cambiare, la chiamata alle armi; quella catasta di roba che vi si rovescia addosso e non potete ignorare.

Ho avuto molte wake-up call nella vita, quindi le cose sono due: avevo un sacco di lezioni da imparare oppure non sono ancora arrivata a svoltare l’angolo giusto.

O magari sono entrambe le cose. E con questo non voglio dire che stavolta ci sono, perché come fai a capire quale sia l’angolo giusto diciamo che con certezza ancora non lo so.

In ogni caso: è suonata un’altra sveglia.

In un paese, qui, dove puoi fare un po’ come ti pare, rispetto alle chiusure forzate di altre nazioni; dove la mascherina non è obbligatoria; dove non ti sparano addosso; dove l’approccio elastico ha trovato la mia approvazione (ah, cosa ho detto!); dove il silenzioso razzismo si stampa anche nella discriminazione di un essere umano malato.

Per questo ultimo motivo e per tanti altri, mentalmente mi appresto ad andare.

Verso dove è solo una bozza ancora tutta da chiarire, ma è certo che i tempi sono quasi maturi, e che l’unica cosa che mi guiderà sarà, come sempre, il cuore.

Perché una vita senza seguire il cuore non vale la pena di essere vissuta. Ricordatevi che è oggi il tempo in cui siete.

Né ieri, né domani.

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Mille frammenti di luce

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Avete presente quelle giornate che sanno di fine inverno, con quel vago sapore di inizio primavera che comincia ad affacciarsi?
 
 
Ecco, ieri era una di quelle così.
 
Nonostante il calendario dica ‘fine settembre’, e l’unico sapore che dovrebbe comparire è quello dei dolci che di lì a poco porteranno al Natale, la giornata sapeva proprio di dopo-letargo.
 
C’era un insolito calore.
 
I 20 gradi dichiarati dalle previsioni meteo sono apparsi veramente, anche se non possono riscaldare come i venti gradi di giugno, per ovvie ragioni di tipo astronomico.
 
Ma l’astronomia non tiene conto del calore all’interno dei corpi e di come quei raggi di sole possano toccare le emozioni.
 
Il solito vento, a tratti, pungeva, ma qualcuno osava comunque le maniche corte. Senza rendermene conto, io stessa indossavo colori brillanti e molto più adeguati all’estate – bianco, sabbia, arancio.
 
Come è tipico dell’essere umano, il sole porta ad uscire dalle tane; e allora, ieri, tutti si sono riversati all’aperto.
 
I bar accanto alla stazione erano letteralmente gremiti di gente. Passavo e li ho osservati.
 
Qualcuno si è accorto dello sguardo che si posava su di loro ma si è subito rigirato a fare conversazione.
 
Era, in effetti, anche difficile non notarmi, visto che l’arancio che indossavo era del cappotto.
 
Comunque, passavo e li ho osservati.
 
Gruppi di lavoro alla fine del meeting; coppie di amici; dipartimenti d’ufficio interi. Seduti o in piedi. Sorrisi o grandi dialoghi, le facce di chi si liberava della giornata. Gente che arrivava, gente che andava; l’abbigliamento da lavoro li etichettava tutti. C’era la cravatta, c’era il completo blu, c’erano le cuffie da fonico al collo, c’era la ventiquattrore.
 
Poco più in là, il solito gruppo di skaters impegnava il piazzale con esercizi di stile, mentre l’amico fotografo li riprendeva dall’alto con il suo potente teleobiettivo.
 
Le scalinate contenevano personaggi seduti a godersi il sole in fronte.
 
Il tramonto stava cominciando. La luce abbracciava tutti, scendendo dolcemente.
 
È stato allora che mi ha assalita di nuovo la malinconia.
 
La perfetta sensazione da fine inverno della giornata si è miscelata alla perfetta sensazione della nostalgia da lontananza, accendendo la miccia della solitudine.
 
Solitudine, tuttavia, che bruciava alla luce del colorato sole, regalandomi uno stridente contrasto interiore.
 
Mi sono infilata nel bus e ho proseguito per i miei giri, lasciandomi cancellare la memoria dagli impegni previsti.
 
Quando mi sono trovata sulla strada del ritorno, il sole era ormai quasi del tutto tramontato.
 
L’ultimo raggio sparava sul grande palazzo della prestigiosa banca; si irradiava in mille frammenti di colore, dispersi anni luce.
 
 

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Vorrei che tu sapessi che sto bene

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Voglio portarti a vedere i miei luoghi.

Voglio dividerli con te, voglio mostrarti cosa ho imparato.

Voglio farti vedere con i miei occhi – se solo potessi.

Se solo potessi portarti oltre confine e farti ammirare il blu con le stelle, le stelle che ogni tanto appaiono anche qui.

Quelle stesse stelle sono uguali dappertutto e basta guardarle per essere collegati. Il mondo è così piccolo.

Se solo potessi farti vivere le stagioni che vivo io dal ponte. Lo fotografo ad ogni cambio, ad ogni ora, all’alba e al tramonto, per farne un giorno una mostra personale di esposizione del tempo.

Voglio portarti a vedere le casette buffe e ogni altro dettaglio che del paesaggio colgo, dal finestrino del mio autobus.

Quando si fa sera e cala la notte, e qui a volte cala molto presto, vedo le luci dei pub brillare e penso a quante passeggiate faremmo, a ciò che potremmo dirci, a cosa potresti notare.

C’è una statuina, in quella piazza, di una piccola Anna Frank, che ho scoperto per caso. Quasi non si vede, abbagliata dalla bellezza della chiesa sconsacrata di fronte a lei, e dal venditore di finti panini italiani al suo fianco che fa capolino durante il giorno.

Voglio portarti a vedere i miei recinti e il mondo che racchiudono. I tetti strani e spioventi, le mega ville che pensi costino una fortuna e invece tutti potrebbero avere, i giardinetti perfetti da Mulino Bianco.

Voglio farti vedere che razza di ragni giganti ci sono da queste parti e come ho smesso di avere paura di loro. Come ho dovuto ingegnarmi a combattere contro vermi, e parassiti, e zecche, e topi.

Vorrei farti vedere quanto ho scoperto di essere diventata forte, quante cose non sapevo di me e ho imparato.

Voglio portarti a vedere le immagini riflesse sui canali. Farti vivere l’ebbrezza di una casa storta e di un waffle aggrovigliato nell’unto.

Voglio spiegarti cosa c’è davvero in un coffee shop e come cambiano le percezioni. Il primo giorno vivevo in una delle città più ambite del mondo, il quarto mese vivevo in un posto come un altro.

Voglio farti vedere, però, come anche in un posto come un altro può sbucare un tramonto all’improvviso, con un sole che sembra un rosso d’uovo e ti lascia così a bocca aperta che pensi che, oh sì, hai scelto proprio una buona città per le tue ispirazioni.

Voglio farti vedere le gocce di pioggia che si fermano sulle ragnatele. E paragonarle alle gocce di pioggia che si fermano sulla sabbia d’estate.

Voglio spiegarti dove fa capolinea l’autobus, che significano quelle parole e dove mangi davvero italiano.

Voglio vivere con te la malinconia dell’Italia, pensandola da lontano, e decidere alla fine di farci un brindisi.

Voglio farti assaggiare il vino con il tappo a corona. E ti prego, non dire niente, perché il tappo a corona non è nulla dopo che hai visto un Pinot blu.

Voglio che tu veda le striature del cielo, certi tramonti di un colore pari a quelli che appaiono dal lungotevere e ti fanno dire oh sì, eterna Roma mia, mai nessuno ti sostituirà.

Voglio farti provare gli oliebollen quando fa freddo. Assaggiare le bitter ballen, il rotolone alla pasta di mandorle che mi piace tanto, e i poffertjes che ancora mi sono sconosciuti.

Voglio farti vedere come il Natale si dilata da settembre a fine anno. Voglio farti sentire che aria tira, che cos’è una cena di famiglia il 5 dicembre. Voglio farti vedere quanto americano c’è negli addobbi casalinghi.

Voglio farti vedere così tante cose che non so se una vita basterebbe.

Ma vorrei che vedessi attraverso il mio cuore. Che respirassi la mia aria, la neve d’inverno, la brezza sulle maniche corte di maggio.

Vorrei che sapessi come si sta ad essere lontani da quella che hai sempre chiamato casa, anche se lo sai, a pensare in una lingua diversa da quella in cui scrivi, anche se lo sai, a raccontare i tuoi sentimenti in una lingua diversa da quella in cui vivi.

Vorrei dirti di come si sta stretti a chiedere aiuto in lingua straniera. Devi cercare sul vocabolario per essere preciso. Devi imparare a razionalizzare anche il dolore, fisico e interiore. Ma anche questo lo sai.

Vorrei che sapessi che tutto è facile e normale, come se la vita fosse sempre stata questa, ma allo stesso tempo tutto è strano e irreale, come se la vita fosse una bolla. Una bolla che non ti permette di appartenere più a nessun luogo e a nessuna nazione. Hai solo la certezza di appartenere a te stesso. Fuori dalla tua figura, i vecchi amici non ti riconoscono più il diritto di essere italiano, e i nuovi amici ti riconoscono solo come straniero. Alla fine, sei altro.

Ma immagino che questo sia il prezzo da pagare, quando scegli di essere via.

Eppure, sai che c’è? Io resto io. Con la voglia di vederti, con la voglia di abbracciarti, con la voglia di portarti nel mio mondo.

Perché, per la prima volta, raccontare non mi basta.

Vorrei che tu sapessi che sto bene.

canali di utrecht in una giornata di sole

Vado a vivere in Olanda

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Lo so, sono pessima. Sono inconstante nello scrivere, non esattamente il comportamento che ci si aspetterebbe da una persona che gestisce un blog. E ora me ne esco con un ‘vado a vivere in olanda’.

Ma il fatto è che ci sono sul serio.

Non so come, non so quando, ma è accaduto. Ti ritrovi dalla sera alla mattina che hai preso decisioni che sai che cambieranno la tua vita per sempre, anche se non sai in quale direzione questo cambiamento avverrà.

Così, da giugno, sono approdata in terra straniera. L’Olanda, che poi in realtà si chiama Paesi Bassi perché Olanda è solo una delle tante regioni, terra fiabesca di profughi (e colonizzatori, sfruttatori, schiavisti, sì ok) che accoglie chiunque chieda asilo e voglia fuggire dalla propria vita. L’Olanda, con il re che si prende cura dei suoi sudditi, li ama, li veste, li pettina, li manda a produrre.

L’Olanda, con la sua lingua che sembra un inglese sporcato di fango, un porto ricco di british people, accenti tedeschi e parole francesi. Una mega fusion di stili e correnti di pensiero, tutte rispettose l’una dell’altra. Vuoi fare la drag queen? Accomodati. Vuoi essere un numero? Fai pure, ci limiteremo a schedarti all’anagrafe. Vuoi sperimentare? Entra in uno dei nostri negozi. Vuoi essere uguale alla massa? Entra in uno dei negozi del centro.

L’Olanda, la cucina del mondo fatta dispensa di un ristorante a cinque stelle. Cibo compreso, ovviamente, perfino al supermercato. Dal pronto thai alla schifosa “celebre pasta italiana con mascarpone sauce” (ma dove), non manca la confezione di caffè a meno di 2 euro. Roba che da noi a quella cifra lo trovi solo al discount. E, se proprio senti la mancanza della versione italiana, c’è il barattolo di Lavazza che costa meno che alla nostra Coop! Che qualcuno avvisi il tizio delle pubblicità che la notte si alza e va a lavorare per offrire un servizio migliore agli italiani.

L’Olanda, patria delle tolleranze. Vuole bene a tutti. A tutte le differenze. A tutte le correnti di pensiero. Non alza la voce, non spinge quando fa la fila, non polemizza sull’aria fritta. Non si lima le unghie negli uffici comunali e non vive del mito della mela americana. Per un italiano tutto questo è assai strano e anche un po’ utopistico, tant’è che di connazionali ne trovi parecchi, che vengono a verificare quanto ci sia di vero, ma li riconosci subito: si aggirano in gruppo, sono griffati, schiamazzano a decibel improponibili e stanno uscendo dai coffee shops.

E io italiana che non schiamazzo, cosa ci faccio qui?

Io sono qui per ricominciare. Ancora una volta. Atterrare con il lanciafiamme la mia vita e ricostruire continuamente è uno sport che pratico con metodo e regolarità. Senza voltarmi indietro. Se fai, fai. Non puoi permetterti di far esistere la mancanza di ciò che avevi, semmai esiste l’incertezza del domani. Ma quella ce l’hanno tutti. Quindi, perché non provare?

Ci sentiamo tra un po’; prometto che cercherò di essere più costante. E, soprattutto, prometto che cercherò di essere più obiettiva possibile nelle mie cronache. Non dico “più giornalistica possibile” perché sappiamo che la suddetta categoria è una delle meno imparziali del mondo…

Ah: al momento in cui sto scrivendo, mi trovo in giardino e ci sono 30 gradi. No, così: l’estate esiste anche qui. Ciao a tutti i disfattisti.