conchiglia in riva al mare

L’ingrediente segreto della vita

(201706151309)

Stamattina mi hanno mandato questa: 

Immagino che abbiate premuto Play, per sentire di cosa si tratta.

Se non lo avete fatto, andate ora – zum, premete e lasciatevi accompagnare dalle note, mentre continuate a leggere.

Avrete un’idea di dove sono mentalmente e di dove mi ha mandato il mio interlocutore, con questo link del mattino. 

Ogni brano è un pensiero, un sentimento, un’emozione.

Ci sono stati d’animo da pop, stati d’animo da rock, stati d’animo da metal, stati d’animo da latina, and so on.

 

Oggi, 15 giugno 2017, alla vigilia del mio primo anniversario di vita olandese, il genere musicale di questo brano mi ricorda che: 

 

Io questa Olanda la sento come un esperimento dell’ora. A quanti dico che non penso di restare qui per il resto della vita, gli si sgranano gli occhi.

Il passare delle stagioni è soggettivo e, allo stesso tempo, condizionato dall’ambiente al quale il nostro corpo è abituato. 

Non trovo così scioccante la presenza della luce diurna, tanto atipica rispetto all’Italia ma c’è di peggio, vi assicuro.

L’Olanda mi piace molto più di quel che avrei creduto possibile; e di posti ne ho vissuti tanti.

Bisognerebbe rendere obbligatorio il soggiorno all’estero a chiunque, come un esame, una materia a scuola: pim, gente buttata così, con una manata in mezzo alle scapole che li spinge, a tutti quanti. C’è da imparare a palate, e il mondo alla fine sarebbe un posto migliore.

Nonostante le manate in mezzo alle scapole, alcuni restano ottusi come un lavandino intasato. Ehh, là non c’è nulla da fare, ci consoliamo con la speranza che siano una minoranza.

Mi sono divertita a passeggiare nella neve, questo inverno, ma non è il mio.

Io non sono una da montagna; non sono nemmeno una da campagna. Io sono una da caldo/mare. Sono cresciuta al mare, conosco a memoria gli effetti della salsedine, il beneficio dello iodio e il suono dell’incresparsi delle onde. I baretti sulla spiaggia. La birra e le patatine mentre i piedi sono affondati nella sabbia. Quella stessa sabbia che ti ritrovi nelle mutande e sul pavimento di casa. I negozi di canotti gonfiabili in fila indiana sullo stradone principale. L’impossibilità di coltivare un giardino se sei di fronte alla costa. Il mare d’inverno e il suo grigio che comanda. Il mare comanda. Decide, inghiotte, ricopre e risputa. Separa e unisce terre. Fa apparire i sogni, perché questi sono l’unica cosa che non ingurgita mai. 

Comunque io sono anche una da città, quella che puzza di catrame e che scorre dai finestrini dei mezzi pubblici. È possibile, dunque, che mi serva una città grande dotata di mare.

Ma sono anche una da scenario deserto. E’ altrettanto probabile, allora, che mi serva un nulla, vicino a dell’acqua, due piante e una grande tecnologia a portata e al bisogno. 

Per ora sto ancora cercando. Ma comincio a sospettare che non troverò mai, nel senso canonico del termine.

Perché semplicemente non devo trovare qualcosa di concreto. È possibile che il mio tesoro sia proprio l’essere ricercatore.

La vita è viaggio.

E dai, via libera a tutte le banalità che vengono in mente dopo questa affermazione. Ma riflettiamoci un solo minuto: la vita è una cosa in movimento. Viaggia per forza di cose, anche se non vuole, anche se non volete. Sta a voi decidere come: non trovate?

La vita è viaggio, ma questo viaggio non è nulla senza la poesia.  

La poesia è il suo ingrediente segreto. È l’aggiunta di sale qb alle ricette. È quella sensazione che non sai spiegare ma che ti fa sentire tanto bene, in certi momenti della giornata. Che so, tipo come stai dopo una chiacchiera con il tuo caro amico, per esempio. Oppure è quell’aperitivo mentre guardi il tramonto. È discutere con qualcuno del più, del meno, e pure del senso della vita. È un raggio di luna che filtra tra i rami secchi. È il pranzo della domenica. È l’abbraccio della mamma, il bacio di papà. È stare seduti sulle scale a parlare per ore di cosa ti è accaduto quel dato giorno. Sono i figli quando vogliono passare del tempo con te. È il ballo improvvisato per cinque minuti sulle note di una canzone che va. È osservare un dipinto a lungo e in silenzio. È un attore che parla con te quando recita. È studiare le pieghe morbide che il marmo ha assunto sotto l’incredibile scalpello di alcuni scultori.

Io ho visto la poesia e so che, quando la trovi e la ignori perché ‘ci penserai dopo’, quel dopo potrà significare tardi.

Si può inseguire la chimera e anche raggiungerla, si possono scalare montagne e abbattere i nemici, triturare tutti al proprio passaggio, lavorare senza pausa per il successo, e non avere la più pallida idea di cosa sia il successo per davvero. 

Il successo è un pacchetto di sale.

Lavorazione immensa per un consumo rapido, ma non la vedi mai in quest’ottica. Valore intrinseco maggiorato, se impari a conoscerlo e a dosarlo qb.

Senza il sale qb, la vita è un viaggio a cui manca e mancherà sempre qualcosa.

ragazza di spalle sul pontile

La Viaggiatrice

Ho visto Marta.
È spagnola, credo di aver capito che abbia 33 anni. Ha una massa di capelli semi-ricci e spettinati, con due ciocche color celeste polvere che escono come cornini e, da lontano, sembrano grigie.
Viaggia da sola.
La ho incontrata stamattina per caso. Mi ha fermata lei, con l’espressione di chi pensava non avrebbe avuto aiuto. Mi è anche sembrato che tirasse un sospiro di sollievo.
Il lunedì mattina la mia città è deserta. Fa più o meno lo stesso effetto di un paese impolverato o di una terra abbandonata. Il fenomeno si verifica perché normalmente gli esercizi commerciali non aprono prima delle 10, ma il lunedì in particolare è mattina di riposo, così si riposano anche le strade. Io abito un po’ fuori città. Marta era ferma a un incrocio dalle mie parti, dove di base non c’è niente ad eccezione del traffico. La scena era dunque questa: lei si trovava con un bar ristorante chiuso alle sue spalle, un passaggio a livello alla sua sinistra, un cimitero di fronte, uno stradone sulla destra. Mi guarda con occhioni sgranati. Mi fermo. “Ahh.”, dice. “May I help you?” (leggo il fumetto sulla sua testa “meno male”). Yes, dice lei, vorrei sapere dov’è il centro. Il centro è a destra, dico io, devi andare di là, sì ma io vorrei sapere, ecco, mi stavo chiedendo, cosa c’è intorno a me, dove siamo, dice lei. Siamo nel niente, dico io, qui sei fuori, davanti a te c’è il quartiere ricco. Vengo da lì, dice lei. Ecco allora se vieni da lì, dico io, avrai visto che non c’è niente e non c’è nessuno, solo il dinero, ma sei spagnola per caso? , dice lei.
Questo particolare mi entusiasma. Finalmente posso tornare a parlare spagnolo, dopo quasi due anni che non lo hablo più ma lo escucho soltanto. Ti parlo in spagnolo, dico io, e attacco come una perfetta madrelingua. La scioltezza mi dura un minuto, poi devo arrendermi all’evidenza che non sono più così brava come ero prima. Non che prima fossi chissà che, ma almeno ero in grado di tenere una conversazione. D’altra parte lei è un disastro in inglese, viene fuori. Lei nel suo inglese terribile e io nel mio spagnolo schifoso intessiamo una conversazione. Fortuna che la città è deserta.
Quand’è che mi dice che si chiama Marta? Ecco come avviene il passaggio. Dopo averle spiegato che è meglio che si levi da quell’incrocio e che non ne ricaverà nulla, la accompagno per qualche metro lungo la strada giusta, metro durante il quale lei mi dice che sta vagando random. Non ha l’aspetto di una senzatetto, è solo una in viaggio. Mi distraggo, supero il vicolo per andare a buttare la spazzatura – che, nel frattempo, scarrozzavo fieramente – me ne accorgo, mi congedo e vado indietro. Vado indietro ma comincio a pensare che come sempre nulla accade per caso, che le coincidenze non esistono, che blabla, che la spesa la posso anche fare dopo, che sì, mi aspetta una pila di cose ma io, quasi quasi, seguo la ragazza e la accompagno. La rincorro. “Vuoi che ti accompagni un po’ in giro per la città?”. Mi guarda strana. Forse perché fino a due minuti prima portavo una spazzatura sottobraccio.
Va bene, dice lei. In questo caso, piacere: sono Paola, dico io. “E io sono Marta”. Mi accorgo che Marta capisce ancor meno di ciò che ha dichiarato essere il suo livello di inglese; d’altra parte, le mie palabras sembrano svanire nel nulla di fronte a lei (eppure nella testa le avevo tutte e, quando la saluterò, torneranno di nuovo). Mi atteggio a guida, le racconto ciò che so, le chiedo di lei.
Mi dice che è di Bilbao ma vive sulla montagna.
Che ogni tanto prende e parte.
Che ha già visitato molti posti e vissuto in altri continenti.
Che fa viaggi anche brevi, come questo: una sola settimana.
Mi dice che non viaggia per vedere i luoghi, ma per studiare le abitudini della gente.
Che pensa di poterle carpire anche in pochi giorni.
Che non ama le città grandi.
Che si ferma a dormire dove si sente ispirata.
Che non le interessa visitare musei, chiese e reperti importanti del luogo.
Che cerca punti dove fermarsi, prendere un caffè e osservare le persone.
Che forse lo fa per via della sua deformazione da antropologa. Le chiedo se è antropologa, mi dice di no.
Mi dice che studiava antropologia, ma ha smesso.
Che ha studiato altre due cose, ma ha smesso anche quelle.
Mi dice che interrompe tutto ciò che le piace e non sa perché. E con questa affermazione, io mi spiego perché lei viaggia così. Ma non glielo dico, non è quello che vuole sapere.
Mi dice che preferisce girare tutto da sola, ma dei suoi viaggi ama la possibilità di conoscere gente ogni tanto e di scambiare qualche parola come sta facendo con me.
Mi sembra di aver invaso la sua privacy e smetto di fingermi guida. Le indico un bar dove potrà appagare la sua ricerca in questa città.
È un pezzo di carta stracciata e di colore blu, quello che tira fuori a questo punto della conversazione e che mi mostra. C’è una lista di luoghi da visitare. La mia città è già tra questi. Restano: una zona caratteristica ma poco rappresentativa, un posto famoso. Mi chiede: “se tu fossi me, dove andresti?”. Con questa domanda, capisco.
Capisco di nuovo che nulla accade per caso ma l’incontro di oggi, questa volta, non era per me. Può succedere che io mi imbatta in persone portatrici a loro insaputa di una risposta a un mio dubbio o a una mia difficoltà. Più spesso, invece, sono io a capitare nella vita degli altri. Credevo davvero che Marta fosse lì per me. Piovuta dal cielo su un angolo della strada, messa dall’alto dalla mano di Dio o chi per lui, tipo pupazzetto “toh, a te ti metto qui, che servi in questo punto”. In una città vuota come questa di lunedì mattina, avvolta in un tempo uggioso, decidere di andare a fare la spesa a un orario davvero scemo come le 9:35 non può essere una coincidenza, ma il segno confezionato pronto per darmi la prospettiva di cui ho bisogno in questo momento della mia vita. E poi io e la Spagna siamo più che amiche: abbiamo un passato non passato. Dio o chi per lui ce la ha davvero posata Marta, in quell’angolo. Ma per lei, per il suo crocevia personale. Marta non è tipo da chiedere a qualcun altro “e tu dove andresti al mio posto”. Marta è qualcuno a cui è accaduto qualcosa ed è alla ricerca di se stessa, anche se ancora non lo sa. E chissà se lo saprà. Io ero il suo pupazzetto messo lì. Mi è stato definitivamente chiaro quando mi ha svelato un’ultima frase.
Avrei voluto sedermi con lei e dirle “raccontami”. Ma sentivo che avrebbe voluto restare di nuovo da sola, dopo un po’. Così le ho detto: “Marta, se io fossi in te non andrei in nessuno dei posti di questa lista.” “Perché?” “Perché questo è simile al tuo mondo, mentre quest’altro non ha ciò che cerchi. Vai in questa altra città che ora ti scrivo.” “E perché proprio questa?”, ha chiesto lei. “Perché questa ha la storia diversa. Qua c’è un bombardamento, e c’è l’antico che è rimasto in piedi. C’è la rivalità tra le genti. C’è l’essenza che è diversa dall’apparenza. E c’è il porto. C’è il mare e vale la pena andarci solo per perdersi a guardare il ponte e oltre l’orizzonte. Non credo tornerai mai più qui.” “No, infatti”, ha detto lei. “Allora non perdere l’occasione di tornare a casa con il ricordo di qualcosa che potrai raccontare e che la gente ascolterà.”
Ha annuito, mentre i suoi occhi mi fissavano. “Grazie. Ho solo due giorni, compreso oggi. Due giorni sono pochi. Dove hai detto che è quel bar da cui osservare la gente?

Buona fortuna, Marta.
Spero di esserti stata di aiuto.
ABBA

Number Ones

Stoccolma, un giorno qualunque, ore 11:45.

“Excuse me..”
“Ring ring! Yes?”


“Do you know at what time is there the change of the guard?”
“SOS! Sei you italiano?”

“Ehm.. Sì.. Come lo ha capito?”
“Mamma mia, from your pessimo english”

“Ah.. Ma lei parla italiano? E’ italiano?”
“Ingen. Sono svedese. Non mi riconosci?”

“Veramente no.. Io non conosco svedesi”
“Knowing me, knowing you, avrei dovuto immaginarlo”

“In che senso, scusi?”

“Arrival! Italians ci conoscevano very poco”

“Lei parla molto strano, lo sa?”
“Eagle, sempre meglio del tuo english. Fammi vedere che cosa porti under your braccio”

“Oh, questo? Non lo so cosa sia. Lo ho trovato mentre ero al porto, su una panchina. Non avevo mai visto un disco rosso. Non capisco cosa c’è scritto”
“C’è scritto Hovas Vittne”

“Ed è una cosa preziosa?”
“Another town, another train: molto preziosa”

“E lei come lo sa?”
“I do, I do, I do, I do, I do! I’m swedish. I know la nostra cultura. Instead of voi italiani che non ci conoscete. You, per esempio: are venuto qui perché stai waiting for cambio della guardia, ‘right? You know it’s bella, you are like the visitors. You non sai niente altro. Io vengo tutti i days, a quest’ora.”

“Io non sono un visitor.”
“Non visitors alieni, piccolo italian medio. Visitors turisti. Ahh, beautiful, turisti! Beautiful, people. People need love”


“Mi scusi.. Io proprio io non la seguo..”
“Voulez-vous seguirmi? Non è possibile: I am uno, e quadruplo. Oggi ci sono, o maybe no. I am il principio, la A e la B del tuo alphabet, and la W alla end. W come Waterloo.”

“Eh?”
“You don’t capisci perché non conosci l’amore. You need a donna. Where is your donna?”

“E’ rimasta in Italia, sono venuto con mio fratello”
“Ahh, stupid boy, he is your brother, but donna è donna! Donna è important, donna è tutto. Ahh, my little Agnetha..”

“Agnetha è sua moglie?”
“Agnetha so long.  Mia little chiquitita, mia dancing queen, mia honey honey, she aveva suoi beautiful angeleys! Ahh, she era come Nina, pretty ballerina..”

“Agnetha era una ballerina? O Nina? Non ho capito: chi è sua moglie??”

“Ssshh, take a chance on me. Il tuo change della guardia sta iniziando..”

“Sì ma..”

“Gimme gimme gimme! Niente ma, il time è scaduto, just dance”

“Dance? Sul cambio della guardia?”
“Of course! It’s super trouper, now!”

“Ci sono le super truppe?? E’ così che si chiamano i soldati svedesi??”
“Ahh piccolo italian medio, che si deve fare con te? It’s the name of the game. Ma è stato un vero piacere conoscerti.”

“Già.. Senta, posso chiederle un’ultima cosa?”
“Ja, rock me. Snabb”

“Che ne faccio del disco rosso?”
“Money, money, money, dear. In the summer night city you capirai.”

“Lei è veramente uno strano personaggio. Anch’io sono contento di averla conosciuta.”
“Grazie, little italian. Hasta mañana.”

” Hasta mañana a lei.. ma.. queste note io le conosco.. che cos’è?”
“I migliori 45 minuti of your vita. Poi, thank you for the music. And then, ssshh.”

stazione termini interno controluce

Roma, Stazione Termini.

Oggi ero qui. Per caso. Anche quando non scelgo di andarci, devo farlo. A volte mi pare di viverci, in questo posto. E’ tutto così familiare, il dlin dlon, la voce degli annunci, le facce da bar. Non che sia un male, intendiamoci. Il male è non potersi mettere di fronte al tabellone, puntare il dito a caso e dire ‘oggi si va qui’. O il male è non poter prendere il treno che dico io ogni volta che ne ho voglia o ce n’è bisogno. O è non potermi permettere qualche giorno fuori con un amico, o un anno fuori da casa. O forse è solo un momento. Un momento di inquietudine. Un momento molto lungo.

mare e sdraio

Rollio.

(201107210200)

Se ne stava seduto ad osservare il mare con le sue barchette parcheggiate nel molo. Una parte di lui invidiava le persone che stavano prendendo il largo; di lì a poco si sarebbero fatte cullare dalle onde, sotto il caldo sole di luglio. Anche lui voleva prendere il largo. Era sdraiato, su di una strana panchina semi mobile costruita in legno, forse importazione di qualche paese lontano, o forse opera di un maniscalco locale. Era una bella sedia. Ed era un buon cocktail, quello che aveva tra le mani. Guardava le nuvole volare, voleva essere con loro. Ascoltava racconti fantastici e faceva domande su quei mondi che per il resto delle persone sembravano solo inventati. Si chiedeva dove sta il confine tra vita e realtà. Quanto si può cambiare. Se davvero vale la pena cambiare, quali sono le alternative. Rifletteva sull’importanza di non cancellare chi e cosa ha di buono nella vita, solo perché è colto da un momento di inquietudine. Di lì a poco avrebbe finito il suo cocktail, si sarebbe alzato e avrebbe guidato, diretto ai suoi doveri e dolori di sempre. Non tutti i viaggi sono belli. Alcuni sono uno strappo al cuore, qualcosa che vorresti poter fermare, e cambiare, rimodellare sulle tue misure. Per questo se ne stava lì, in attesa dello scadere dell’ora. Se non poteva bloccare il dopo, poteva almeno bloccare l’adesso. Uno sbalzo di sospensione del tempo: lui, le domande, il vento fresco, e l’ascolto suo punto fermo.

photo credits: Giulia Mariutti, Endlich ruhe