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La via per la felicità

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Devo raggiungere un posto.

Non chiedetemi quale sia, devo raggiungerlo e basta. 

Finalmente mi decido a prendere la bicicletta.

Dopo tanti mesi passati a dire che non ce la avrei fatta – per via del ginocchio, e poi non vado in bici da una vita chissà se ne sarò ancora davvero capace, scopro che non solo ci so andare ma il ginocchio non fa neanche male.

Così, salgo in sella sotto al semaforo rosso, accanto a un motociclista, un signore sulla cinquantina che guida un bolide in stile Ducati.

Quando scatta il verde parto io. Dritta, in linea, senza sbandare, sorpasso perfino il motociclista, che mi guarda ammirato.

Come se una bici potesse superare una moto… eppure è successo.

Percorro un rettilineo che mi ricorda il ponte di Corso Francia a Roma, imbocco altre due strade un po’ tortuose, sottopassi e cavalcavia, sono ancora dritta, mi stupisco; sempre con andatura liscia e sfrecciante.

Arrivo vicina alla mia meta e, nei circa 500 metri che precedono l’arrivo, uno stuolo di ragazze in maglietta bianca si allinea lungo il bordo delle strade finali e comincia a sparare con un mitra.

Tutte ne hanno uno, ma anche io ne ho uno: lo stesso loro, guarda caso, e senza mai frenare lascio andare la bici e comincio a scivolare quasi a velocità supersonica, come se fossi ugualmente su due ruote, o come se avessi le ali.

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Che sensazione incredibile.

Sparo a mia volta. So che nessuno si farà male e se fosse una vera battaglia la strada sarebbe già rossa, ma non è una vera battaglia e io comunque sto vincendo.

Con grazia e senza il freno di alcuna pesantezza arrivo alla meta, ed entro.

L’edificio ha alti e bassi. Un teatro al piano terra – livello più alto, un vasto teatro da opera classica dove si stanno svolgendo le prove generali della pièce che andrà in scena la sera, è una prima.

Al piano più sotterraneo: una piscina e altre sale sportive dove sono in corso tornei pseudoamatoriali ma con presenza obbligatoria, capitanati dall’insegnante di ginnastica di mia figlia.

La sala è gremita, tutti mi attendono.

Sono la regina indiscussa, non so perché. Sono amata, stimata.Persone di ogni età si avvicinano a me e mi chiedono consigli, uno sguardo, sorrisi.

In particolare, una signora sulla settantina, dall’apparenza molto snob e ricca, elogia la mia persona e dimostra affetto e simpatia. 

Ma io ho voglia di un caffè. Ho bisogno di un caffè.

Al piano delle piscine c’è una macchinetta di bevande pronte, io vorrei un bar.

Anzi, non voglio un caffè, ma un cappuccino, con quella sua bella schiuma corposa e densa.

Salgo a livello. Altri signori si fermano a parlare, altre chiacchiere, altre ammirazioni. Mi serve quel caffè.

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“Scusi, posso avere un caffè?”, “mi spiace il bar è chiuso”, dice la signorina al bar del teatro.

Esco, vado in strada, fluttuo veloce, “devo tornare presto nell’edificio”, non c’è un bar. Non vedo un bar. Non c’è mai un bar quando serve.

Lo dico anche al mio caro amico e confidente che mi chiama in quel momento per parlarmi delle sue figlie e di come gli va la vita, “non trovo un bar, sembrano scomparsi tutti. Ah no, aspetta, forse ne ho trovato uno”.

Sguscio all’interno, con il telefono in una mano salto in alto per sbirciare dall’enorme muro che separa i tavolini dal bancone. Salto in alto. Io. Come sono elastica e senza peso, meraviglia.

Lo faccio passando tra due uomini seduti a conversare.

Sono affascinanti, uno in particolare attira la mia attenzione,con il suo sguardo luminoso, i capelli neri, il sorriso. Longilineo. Più o meno la mia età. Vivo. Mi piace.

Portano entrambi il cappotto.

Arrivo al bancone del bar e chiedo un cappuccino.

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La barista esce dal bancone, farfuglia qualcosa, aggiunge che lei parla anche inglese e non c’è bisogno che io mi sforzi di parlare olandese, per giunta con l’accento italiano, che si sente.

La detesto. E dov’è il mio cappuccino?

Vado via, esco, torno indietro, decido di optare per la macchinetta.

Lungo la strada, mi fermo sotto un ponteggio a rispondere a una chiamata importante: è la commissione papale che mi informa che mia figlia ha vinto il concorso, con il suo saggio su Garibaldi.

Rientro nell’edificio.

Vado alla macchinetta, apro il portafoglio e guardo: ho circa 5 euro in monete. Ho una moneta nuova da 2, e una nuovissima da 3, la hanno appena fatta, è tra le primissime in commercio. La guardo: è enorme e lucente, bellissima, grande quanto una fetta di patata. Non la prenderà nessuna macchinetta.

La riguardo ancora e penso che l’inflazione è una brutta cosa.

Guardo la moneta, la macchinetta, la moneta, la macchinetta.

Non c’è il caffè.

E nemmeno il cappuccino.

Penso che ho tutto quel che apparentemente si possa desiderare. La velocità, volare, un’arma per vincere, affetto e ammirazione, monete lucenti. Sono ricca, e non posso comprare nemmeno un caffè.

In quel momento mi raggiunge mia figlia, che mi chiede “mamma, ma allora ho vinto? Alla fine abbiamo partecipato a quel concorso?”

“Sì, tesoro, hai partecipato. Ma lo hai fatto in un sogno. È tutto un sogno, come lo è anche questo.”