tattoo ace of spades

Demone artista

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La questione di Tinderen e delle tossine è un po’ il tema dominante di questo luglio.

Ho attraversato un mese complesso, che mi ha vista aumentare la mia produzione artistica per la prima volta dopo anni. E questo comunque è un bene.

Ci sono arrivata facendo un giro molto largo, partito nel 2020.

Durante il fermo dell’anno scorso, c’è stata una persona che mi ha fatto riflettere su me stessa.

Ero già avanti nel mio viaggio, ma c’erano degli aspetti che ancora non riuscivo ad affrontare nella maniera giusta per smantellarli, ed altri di cui non ero davvero cosciente.

Questa persona, parlando di sé e facendomi parlare di me, mi ha aiutata inconsapevolmente. Non ha detto cose particolarmente originali che qualcun altro non avesse mai detto. I concetti sono sempre quelli, a volte. Ma si è recettivi in maniera diversa, per via dello scambio di energie che si crea tra persone.

Con alcune, il collegamento è tale che pure se ti dicessero ‘carciofi’, tu ci troveresti un senso molto profondo.

Con alcune persone ti senti più a tuo agio. Di alcune persone ti fidi, o ti fidi di più.

Alcune persone sai che non ti tradiranno, o almeno così dovrebbe andare – poi, la vita accade -, perché sono le stesse persone che si raccontano con te, e con te mettono la loro anima a nudo, tirando giù le barriere della mancanza di fiducia, sentendosi finalmente liberi.

Alcune persone entrano a far parte di te e tu non ti sei nemmeno accorto come, quando è successo, perché, né quanto ti stiano aiutando a riflettere e crescere.

Atteggiamenti e abitudini dell’altro che danno forma ai tuoi lati oscuri, a un tratto sono lì di fronte a te, e hai due scelte: rifiutare di nuovo tutto a prescindere, solo perché lo hai sempre fatto e non conosci altra strada, o ammettere ciò che è altro da te, diverso da te, l’ombra di te, e accettare di cominciare a scavare, in un viaggio verso il basso molto doloroso.

Penso a emozioni incompiute, che hai messo a bollire lasciandole attaccare sul fondo della pentola e non avendo il coraggio di avvicinarsi più, perché la puzza è troppa.

Sembra tutto molto complicato?

In realtà non lo è. Fatemi riportare il concetto a un livello semplice:

Ci sono persone che ti aiutano ad aprire gli occhi sulla tua stessa vita e ti danno quella spinta necessaria a uscire dal tuo torpore e affrontare gli ultimi demoni rimasti.

Tra i demoni rimasti, c’era quello della creatività, sempre lasciata là, buttata in un angolo, un po’ maltrattata, poverina.

Accettare di essere un’artista, in un mondo – quello contemporaneo – che di fatto espelle il concetto prima ancora che sia nato, è stato il durissimo passo successivo.

Con la ripresa del mondo, e la necessità di portare avanti la vita così com’era, il demone artista ha sviluppato tutto un suo piano B. Sviluppato, abbozzato, ma ancora leggermente offuscato. Fino a questo luglio. La persona che mi ha aiutata in questo viaggio complice fino alla fine.

E anche qui, ho avuto due scelte: chiudermi e tornare indietro a ciò che conoscevo già e avevo già fatto mille volte, o mettere in pratica ciò che avevo imparato nell’ultimo anno, liberare le tossine, prendere il demone artista per le corna (non lo so, ce le ha le corna?) e approfittarne per cavalcarlo. Ora o mai più.

Si dice che alcuni artisti producano meglio quando soffrono. Altri fanno molto di più quando sono felici. Io non rientro nella seconda categoria. Ma va bene, ognuno sfama il proprio demone come meglio crede, come meglio sa fare. Il mio sta mangiando pensieri, gocce di sale, parole, foto, disegni su carta e sulla pelle. Sta mangiando note musicali. Si sta mangiando anche le ore notturne, e va a fare il rettile al sole.

Ero su youtube, l’altro giorno, e l’occhio mi è caduto su un commento sotto a un video:

“and that’s why I get excited when artists start dating, when they break up they release some fire tracks”.

Mi ha fatto sorridere un bel po’. Ho pensato che è cinico, ma anche tanto vero.

Artist demon

The thing with Tinder and toxins is the dominant theme of this July.

I had a complex month, during which my art production increased for the first time in years. I actually got here by taking a very wide loop, started in 2020.

During last year’s detention, there has been a person who helped me make some self-reflection.

I was already well along on my journey, but there were some aspects that I still couldn’t deal with properly, and some others that I wasn’t totally aware of.

This person talked and made me talk, and he unknowingly helped me. He didn’t say anything that was particularly original. The basic concepts are always the same, but one is receptive in a different way, depending on the exchange of energies that happens between people.

With some of them, the connection is such that even if you were told ‘artichokes’, you would find very profound meaning in it.

You feel more comfortable with some people. You trust them.

Those won’t cheat on you, or so it should be – then, life happens -, because they’re the same people who get their soul naked with you, putting down the walls of trust issues, finally feeling free.

Some become a part of you and you don’t even know how it happened, when, why – or how much they are helping you to reflect and grow.

Attitudes and habits that are the shape of your dark sides, suddenly become real in the other person, and you have two choices: to reject again regardless because that’s what you always do, or to admit what is other than you, and start doing your shadow work.

I am talking unfinished business, complex emotions that you’ve put to a boil by letting them stick to the bottom of the pot and not having the courage to get closer because the smell became too strong.

Does this all sound complicated?

It really isn’t. Let me bring the concept back to a basic level:

There are people who help you open your eyes and give you the boost you need to get out of your slumber and face the last remaining demons.

Among the demons left was creativity, always left there, thrown in a corner, a little mistreated, poor creature.

Accepting to be an artist, in a world – the contemporary one – which in fact expels the concept even before it’s born, was the very hard next step.

With the world opening back up, and the need to carry on with life as it was, the artist demon developed a whole plan B. It was sketched, but still slightly clouded. Until this July – the person who helped me in this journey, complicit to the end.

And again, I was left with two choices: shut myself up and go back to my usual past, or set myself free, put into practice what I had learned the last year, release the toxins, take the artist demon by the horns (does he have horns?) and ride this opportunity. Now or never.

It is said that some artists perform better with suffer. Others do much more when they are happy. I don’t fall into the second category. But that’s okay, everyone feeds his artist demon as they see fit. Mine is eating thoughts, drops of salt, words, photos, drawings on paper and on the skin. He is eating musical notes. He is also eating night hours, and going reptile in the sun.

I was on youtube the other day, and my eye fell on a comment under a video:

“and that’s why I get excited when artists start dating, when they break up they release some fire tracks”.

It made me smile. I thought it’s cynical but very true.

selfie da sotto, per una volta

Di questi anni cosa resta

di questi anni che cosa resta,

se questi ancora si svolgono con le loro carni lacere al fianco, cercando di nasconderne l’usura, la vergogna e gli errori.

di questi anni cosa resta,

sul tavolo del salotto mentre facciamo pranzo, e i telefoni si impossessano sempre di più delle nostre dita, il nuovo quoziente intellettivo globale sempre più in basso, la nostra capacità di pazienza sempre più stretta, con la sua voce sempre più in alto che cerca di giocare a fare la grossa.

di questi anni cosa resta, e cosa resterà di questi passi, passati a smontare le tende per lavarle, a pulire maniacalmente le mattonelle di casa, a lucidare le maniglie dei mobili. tutti gusti all’italiana, di cose che facevo da italiana, che tradivano, ogni volta, uno “sto male devo pensare”, che mi ricordano mia madre;

che mi ricordano che ho chiesto vacanze e non ho ancora comprato il biglietto. forse andrà solo lei, la piccola che questo anno se lo merita. e io, madre, vorrei che andasse, per farla tornare a volare;

che mi ricordano che non ho vacanze, non ho programma, e quel che c’era non c’è più. e anche se lo avessi, non si sentirebbe.

cosa resta di questi anni,

se la cara compagnia sparisce?

forse una rosa del deserto.

forse un impalpabile alito di vento.

forse una croce.

di questi anni che cosa resta,

di queste cene, di questi anni, di questi pomeriggi vuoti non apprezzati, e noi pellegrini andavamo a inseguire le onde per cercare anche solo una gioia, pur sapendo, che era effimera, solitaria, un po’ buia, dimessa, non caciarona, sorniona.

una gioia non dedicata; una gioia non attenta.

una gioia un po’ sbadata.

ma erano quei giorni, quei giorni che ti chiedevi che cosa facciamo, perché ci siamo, perché non chiami, perché non ami, perché non ci sono gli amici, perché non viene nessuno, perché sono tutti partiti, perché chi ti pensa non lo dice, perché chi lo dice te lo sbatte in faccia, con cattive intenzioni.

erano quei giorni, quei giorni in cui non ci sono i biscotti, e tu ti chiedi che fine hanno fatto. non sono pronta a perdere in biscotti. non sono pronta a perdere te.

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Sheldon e il Natale

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Ho passato un bel Natale.

Al terzo dicembre sono tornata a casa.

L’ultimo passato in Italia non era stato granche’, era il 2015, ero pressoche’ sola. E quello prima mi sentivo sola lo stesso.

Quest’anno e’ stato diverso.

E’ stato in famiglia, 24 e 25.

Ed e’ stato strano.

Nello stesso momento in cui sapevo di essere a casa e mi sentivo comoda con chi avevo accanto, percepivo l’essenza fluida e vanesia del concetto del Natale e la sua quasi inutilita’ nel festeggiarlo.

Mi sono sentita Sheldon in un episodio di Big Bang Theory: completamente fuori luogo, immersa in un acquario addobbato a festa con pesci consapevoli e felici.

Mi sono sentita piccola e diversa.

Un po’ grinch.

Un po’ arrabbiata con me stessa.

Tutto quel che c’era avrei potuto averlo in un qualunque altro giorno, perche’ aspettare il Natale?

Perche’ fare regali imposti dalla tradizione? Che tradizione e’ mai questa?

Perche’ farsi gli auguri di Natale, che cosa significa?

Sheldon mi guardava curioso spiandomi da dietro una poltrona del salotto, mentre mi facevo queste domande. Io sentivo il suo giudizio, e la sua vocina che mi sussurrava “allora lo vedi che il mio personaggio non e’ strano?”.

Sentirsi Sheldon a Natale e’ quantomeno inquietante.

Non ho perso il cosiddetto spirito natalizio.
Ho comprato bicchieri di plastica con disegni a tema e li ho usati fin dal primo del mese.

Ho fatto due alberi.

Mi sono addobbata come un terzo in occasione del pranzo aziendale.

Mi sono travestita da umpalumpa lappone in occasione del pranzo famigliare.

Ma non riesco a concentrare questo spirito in soli due giorni.

Non riesco a concepire la parola ‘auguri’ e il gesto ‘tieni questo e’ il tuo regalo’.

E comunque di pacchetti ne ho fatti tanti.

Sara’ una cosa di quest’anno.

Sara’ che la mia vita e’ cambiata.

Sara’ che io sto di nuovo cambiando.

Vorrei solo che fosse Natale ogni giorno nello spirito di comunione che ci dovrebbe tutti accompagnare come individui.

In qualunque parte del mondo.

Per qualunque razza o religione, senza alcuna distinzione.

Vorrei ci fosse quel calore sempre.

Vorrei che nessuno se lo dimenticasse, mentre divora il tacchino con la messa in sottofondo e ciarlando dei politici, e poi tirando via per strada di fronte a chi chiede l’elemosina quando esce per la passeggiatina digestiva, mentre cammina risucchiando il fondo della coca cola comprata al mc donald’s.

Sheldon ne faceva una questione di mancanza di prove scientifiche.

Io ne faccio una questione di chi siamo – dove andiamo – qual e’ il senso della nostra vita.
Anyways, in ogni caso oggi io e lui siamo accomunati.

Mentre ci penso, mi sento sempre piu’ strana e mi guardo da fuori, cercando di non giudicarmi troppo ma due domande me le faccio lo stesso.
Mi siedo sulla poltrona, la stessa da cui Sheldon mi osserva.

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Mille frammenti di luce

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Avete presente quelle giornate che sanno di fine inverno, con quel vago sapore di inizio primavera che comincia ad affacciarsi?
 
 
Ecco, ieri era una di quelle così.
 
Nonostante il calendario dica ‘fine settembre’, e l’unico sapore che dovrebbe comparire è quello dei dolci che di lì a poco porteranno al Natale, la giornata sapeva proprio di dopo-letargo.
 
C’era un insolito calore.
 
I 20 gradi dichiarati dalle previsioni meteo sono apparsi veramente, anche se non possono riscaldare come i venti gradi di giugno, per ovvie ragioni di tipo astronomico.
 
Ma l’astronomia non tiene conto del calore all’interno dei corpi e di come quei raggi di sole possano toccare le emozioni.
 
Il solito vento, a tratti, pungeva, ma qualcuno osava comunque le maniche corte. Senza rendermene conto, io stessa indossavo colori brillanti e molto più adeguati all’estate – bianco, sabbia, arancio.
 
Come è tipico dell’essere umano, il sole porta ad uscire dalle tane; e allora, ieri, tutti si sono riversati all’aperto.
 
I bar accanto alla stazione erano letteralmente gremiti di gente. Passavo e li ho osservati.
 
Qualcuno si è accorto dello sguardo che si posava su di loro ma si è subito rigirato a fare conversazione.
 
Era, in effetti, anche difficile non notarmi, visto che l’arancio che indossavo era del cappotto.
 
Comunque, passavo e li ho osservati.
 
Gruppi di lavoro alla fine del meeting; coppie di amici; dipartimenti d’ufficio interi. Seduti o in piedi. Sorrisi o grandi dialoghi, le facce di chi si liberava della giornata. Gente che arrivava, gente che andava; l’abbigliamento da lavoro li etichettava tutti. C’era la cravatta, c’era il completo blu, c’erano le cuffie da fonico al collo, c’era la ventiquattrore.
 
Poco più in là, il solito gruppo di skaters impegnava il piazzale con esercizi di stile, mentre l’amico fotografo li riprendeva dall’alto con il suo potente teleobiettivo.
 
Le scalinate contenevano personaggi seduti a godersi il sole in fronte.
 
Il tramonto stava cominciando. La luce abbracciava tutti, scendendo dolcemente.
 
È stato allora che mi ha assalita di nuovo la malinconia.
 
La perfetta sensazione da fine inverno della giornata si è miscelata alla perfetta sensazione della nostalgia da lontananza, accendendo la miccia della solitudine.
 
Solitudine, tuttavia, che bruciava alla luce del colorato sole, regalandomi uno stridente contrasto interiore.
 
Mi sono infilata nel bus e ho proseguito per i miei giri, lasciandomi cancellare la memoria dagli impegni previsti.
 
Quando mi sono trovata sulla strada del ritorno, il sole era ormai quasi del tutto tramontato.
 
L’ultimo raggio sparava sul grande palazzo della prestigiosa banca; si irradiava in mille frammenti di colore, dispersi anni luce.
 
 

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Venti

Twenty
I wish I were
20 years younger
I’m not interested in starting all over again
I’m not interested in hanging around with no reason
Thing is: life is running
Question is: am I running out of time?
I wish I were
20 years younger
At that time, you’re facing life
Mira, here’s your Future, boy
I wish I were
20 years younger with a better conscience
To make different choices
Choose different people
Watch people, and watch out
I wish I were
20 years younger to have fewer scars
all over the body
the brain
the alma
and the heart
I wish I were
20 years younger
to have the right to sit
and to cry whenever I want
accusing alcohol to be the butterfly effect
on my bad judgments

While being as I am
consents not to stay in the center
allows now to look from another perspective
You sit in the corner
You wait for nothing, possibly
You’re simply done with waiting in a Godot style:
promises, premises, bonuses, gentleness
You wait for yourself converging in one piece
You know you’re the only one responsible
It may happen you drop a line of liquid thoughts from the eyes 
to the ground
It will be just the expression of your inner self
needing a break
asking for a pause
begging for silence
yelling after the fall down – which will be
at the same time
the starting point.
How many starting points
have been built so far.
 
 
iviaggidelladruida-vorreichetusapessichestobene

Vorrei che tu sapessi che sto bene

(201709302340)

Voglio portarti a vedere i miei luoghi.

Voglio dividerli con te, voglio mostrarti cosa ho imparato.

Voglio farti vedere con i miei occhi – se solo potessi.

Se solo potessi portarti oltre confine e farti ammirare il blu con le stelle, le stelle che ogni tanto appaiono anche qui.

Quelle stesse stelle sono uguali dappertutto e basta guardarle per essere collegati. Il mondo è così piccolo.

Se solo potessi farti vivere le stagioni che vivo io dal ponte. Lo fotografo ad ogni cambio, ad ogni ora, all’alba e al tramonto, per farne un giorno una mostra personale di esposizione del tempo.

Voglio portarti a vedere le casette buffe e ogni altro dettaglio che del paesaggio colgo, dal finestrino del mio autobus.

Quando si fa sera e cala la notte, e qui a volte cala molto presto, vedo le luci dei pub brillare e penso a quante passeggiate faremmo, a ciò che potremmo dirci, a cosa potresti notare.

C’è una statuina, in quella piazza, di una piccola Anna Frank, che ho scoperto per caso. Quasi non si vede, abbagliata dalla bellezza della chiesa sconsacrata di fronte a lei, e dal venditore di finti panini italiani al suo fianco che fa capolino durante il giorno.

Voglio portarti a vedere i miei recinti e il mondo che racchiudono. I tetti strani e spioventi, le mega ville che pensi costino una fortuna e invece tutti potrebbero avere, i giardinetti perfetti da Mulino Bianco.

Voglio farti vedere che razza di ragni giganti ci sono da queste parti e come ho smesso di avere paura di loro. Come ho dovuto ingegnarmi a combattere contro vermi, e parassiti, e zecche, e topi.

Vorrei farti vedere quanto ho scoperto di essere diventata forte, quante cose non sapevo di me e ho imparato.

Voglio portarti a vedere le immagini riflesse sui canali. Farti vivere l’ebbrezza di una casa storta e di un waffle aggrovigliato nell’unto.

Voglio spiegarti cosa c’è davvero in un coffee shop e come cambiano le percezioni. Il primo giorno vivevo in una delle città più ambite del mondo, il quarto mese vivevo in un posto come un altro.

Voglio farti vedere, però, come anche in un posto come un altro può sbucare un tramonto all’improvviso, con un sole che sembra un rosso d’uovo e ti lascia così a bocca aperta che pensi che, oh sì, hai scelto proprio una buona città per le tue ispirazioni.

Voglio farti vedere le gocce di pioggia che si fermano sulle ragnatele. E paragonarle alle gocce di pioggia che si fermano sulla sabbia d’estate.

Voglio spiegarti dove fa capolinea l’autobus, che significano quelle parole e dove mangi davvero italiano.

Voglio vivere con te la malinconia dell’Italia, pensandola da lontano, e decidere alla fine di farci un brindisi.

Voglio farti assaggiare il vino con il tappo a corona. E ti prego, non dire niente, perché il tappo a corona non è nulla dopo che hai visto un Pinot blu.

Voglio che tu veda le striature del cielo, certi tramonti di un colore pari a quelli che appaiono dal lungotevere e ti fanno dire oh sì, eterna Roma mia, mai nessuno ti sostituirà.

Voglio farti provare gli oliebollen quando fa freddo. Assaggiare le bitter ballen, il rotolone alla pasta di mandorle che mi piace tanto, e i poffertjes che ancora mi sono sconosciuti.

Voglio farti vedere come il Natale si dilata da settembre a fine anno. Voglio farti sentire che aria tira, che cos’è una cena di famiglia il 5 dicembre. Voglio farti vedere quanto americano c’è negli addobbi casalinghi.

Voglio farti vedere così tante cose che non so se una vita basterebbe.

Ma vorrei che vedessi attraverso il mio cuore. Che respirassi la mia aria, la neve d’inverno, la brezza sulle maniche corte di maggio.

Vorrei che sapessi come si sta ad essere lontani da quella che hai sempre chiamato casa, anche se lo sai, a pensare in una lingua diversa da quella in cui scrivi, anche se lo sai, a raccontare i tuoi sentimenti in una lingua diversa da quella in cui vivi.

Vorrei dirti di come si sta stretti a chiedere aiuto in lingua straniera. Devi cercare sul vocabolario per essere preciso. Devi imparare a razionalizzare anche il dolore, fisico e interiore. Ma anche questo lo sai.

Vorrei che sapessi che tutto è facile e normale, come se la vita fosse sempre stata questa, ma allo stesso tempo tutto è strano e irreale, come se la vita fosse una bolla. Una bolla che non ti permette di appartenere più a nessun luogo e a nessuna nazione. Hai solo la certezza di appartenere a te stesso. Fuori dalla tua figura, i vecchi amici non ti riconoscono più il diritto di essere italiano, e i nuovi amici ti riconoscono solo come straniero. Alla fine, sei altro.

Ma immagino che questo sia il prezzo da pagare, quando scegli di essere via.

Eppure, sai che c’è? Io resto io. Con la voglia di vederti, con la voglia di abbracciarti, con la voglia di portarti nel mio mondo.

Perché, per la prima volta, raccontare non mi basta.

Vorrei che tu sapessi che sto bene.

SolitudebyIsacGoulart

Se avessi attraversato il mondo

(201709160050)
Se non avessi attraversato il mondo, ora non sarei qui.
Se non mi fossi slacciata le scarpe, non avrei provato la sensazione dell’acqua gelida di un torrente in agosto.
Se non mi fossi tenuta le scarpe, non avrei potuto camminare sui sassi.
Se non avessi attraversato il mondo, oggi sarei altrove.
In un mondo ‘altro’. Un mondo ‘diverso’.
Un mondo fatto di cose che non so e che non saprò mai.
Un mondo di scelte alternative, belle o brutte, bionde o brune, luminose o grigie.
Un mondo da bere o da prendere a morsi.
Se non avessi aspettato quell’autobus, quel treno, quella bicicletta, non avrei conosciuto l’amore.
Se non avessi atteso abbastanza il verde al semaforo, sarei morta da qualche parte, di quelle morti da distrazione con la testa tra le nuvole.
Se avessi avuto la testa tra le nuvole, se la avessi ancora, avrei visto e vedrei i gabbiani chiamarsi l’un l’altro, mentre disegnano spirali di aria nel cielo, e ci guardano dall’alto verso il basso, a tutti noi, che operiamo come formiche, nella più assoluta mancanza di libertà.
Ma se non avessi avuto la testa tra le nuvole, mi sarei persa le gioie più grandi della vita, tutte quelle che ho creato dal nulla, riflettendoci sopra con il cuore, l’istinto e l’immaginazione; tutti i castelli in aria costruiti su castelli di sabbia; tutti i minerali luccicanti in essa racchiusi, visibili solo mettendo la testa in una certa inclinazione.
Se mi fossi tenuta le scarpe, non avrei mai danzato.
Non avrei ballato con le stampelle. Non avrei sentito il variare delle superfici sulle quali camminiamo credendo di essere protetti, quando non lo siamo per niente, perché, se vuole, la natura spacca tutto, con la potenza delle sue radici.
Se non avessi conosciuto Benni, non mi sarei fermata a celebrarlo scoprendo per la prima volta la terrazza del primo locale che avevamo a disposizione in quel momento, il Gin Tonic che avevo da sempre ignorato, e il mio nuovo ricordo intimo da inserire nel barattolo dei preziosi che non aprirò mai o che, anche se aprirò, non si sfascerà mai perché contiene solo cose che sono già state tutte tatuate sopra e dentro di me.
Se non avessi la lampada di Wood, dovrei cercare con i miei occhi normali le malefatte che nascondete. Ma tanto le vedrei lo stesso.
Se non avessi attraversato il mondo, la nazione, la città, la piazza, il portone di casa, il salone delle feste, la cucina, il bagno e infine la camera da letto, oggi forse avrei smesso di pensare a una domanda che mi tormenta da qualche giorno: ma io, esattamente, cosa ho fatto fino ad ora?
Ora che queste parole scendono e rimbalzano con dolcezza, come un tappeto elastico piccolo e costruito al centro di un bosco, ora e qui siamo da soli, io con il tappeto elastico, le mie parole e la frase gettonata.
Se non avessi attraversato il mondo, o lo avessi fatto con te, o con te, o con te, oggi vivrei un altro mondo ancora.
Fatto sempre di scarpe.
Fatto sempre di puntate al mare ogni tanto, perché mi sto accorgendo maledettamente che, più cresco, più il mare mi mantiene in vita ed è straziante farne a meno.
Quello del mare è un altro mondo fatto di blu, e sole, e balli in 2 metri quadri. Di luci flebili. Di invito all’arte. Di volti, di ricordi lontani che si racchiudono in bolle di sapone e ti guardano sorridenti.
Ma cosa c’entra il tema del viaggio, con tutto questo?
C’entra, perché questo è un viaggio interiore. Che si svolge in movimento, con e senza calzature, raccontando di scarpe, di piazze e di posti, dove c’era chi io sono andata a prendere.
Per queste persone a volte ho combattuto, spogliandomi di pesi e pregiudizi. Sono andata controvento, ho volato, mi sono arrampicata, ho sfidato le leggi della fisica creandone di mie. Queste persone sono state avvolte in una coperta calda, con una tazza di bevanda calda. Quando sei convinto di sentire il freddo, la tazza calda ti serve.
Poi, lentamente, ho cominciato a ritirarmi. A incurvare la schiena, a guardare negli occhi ma con un sorriso invece di due, mentre il corpo si ripiegava su stesso, in maniera impercettibile.
Ho indietreggiato, nascosta tra le file. Ho guardato quelle persone mentre si divertivano, e smettevano di cercarmi. Lo facevano perché non ero più io quello di cui avevano bisogno. Io ero il gentile passaggio per l’altra strada, quella che si deve fare con un salto, o che richiede un ponte.
Io avevo quel ponte.
Avrei potuto scegliere di restare lì. A fissare il ponte, a guardare chi, dopo qualche tempo di festa e vita irrealizzabile, sarebbe comunque andato via, dietro alla voglia di scoprire cosa c’è dopo. Ho scelto di camminare, me ne sono andata lentamente, dopo la certezza che il desiderio era stato realizzato, una situazione sbloccata, un percorso compiuto.
Me ne sono andata.
Me ne sono andata e, a volte, qualcuno mi ha chiesto perché.
“Perché dopo aver lottato tanto, dopo aver combattuto, dopo avermi tirato fuori da dove stavo, semplicemente vai?”
Boh. Non lo so perché.
Forse perché il percorso, il percorso di entrambi, era finito.
Forse perché sono una solitaria.
O una senza aspettative particolari, che vuole aiutare quanto può.
O una con aspettative eccessive negli altri, che poi resta delusa e deve andare.
O una innamorata delle idee.
O forse, forse sono così e basta. Un mix di due immagini che abbiamo tutti dentro di noi ma che io faccio vedere: quella che cammina storta sui tacchi e se ne nasconde, quella che vede i giochi dei bambini e allo stesso tempo li odia.
Quella riconoscibile da una piccola riga che cammina per terra al suo fianco; è il segno di una lacrima, che sta fissa, scende lì, la accompagna. Quella lacrima è la dote d’oro, il filo di Arianna. La collana con cui vestirsi.
Quella lacrima ha poche dediche ma, più di tutte, è per me stessa: è la grazia per ogni cosa che ho trovato e che ha lasciato traccia quando ho proseguito.
Ricerca del nuovo e conta del tempo non sono in accordo.
Se avessi attraversato il mondo abbastanza, oggi me ne vorrei restare sdraiata come questa signorina, dolce, pensierosa su un pontile, con la coscienza a posto di chi ha lasciato andare la cose giuste.
Il mio viaggio non è ancora terminato.
photo credits: Pholwises, Peaceful solitude
TheWalkbyBurcumbaygut

Insurgent

(201503180145)

È veramente tardi. Continuo ad avere la sveglia alle sei e un quarto. Non la metto d’abitudine; soprattutto ora che sono stata esonerata da ogni attività, potrei dormire. La metto per mia figlia. Mi alzo, le preparo la colazione, mi prendo cura di lei svegliandola dolcemente, la convinco a fare un piccolo sorriso mattutino. Tutte le mattine, nel tragitto che separa il letto dalla porta, tengo lezioni sul volersi bene, parlarsi, sorridersi e sorridere alla vita. Ogni tanto non funziona, il meccanismo si inceppa: lei forse apre il telefono legge qualcosa su qualche chat o semplicemente la luna è in quadratura e non trova le chiavi di casa, ed esce adombrata; pronta a far crescere quell’angoletto scuro per tutta la giornata, ma che scarica solo una volta tornata a casa dalle lezioni. E quella che comincia da lì, dal pranzo alla cena, può diventare una delle giornate più lunghe dell’anno. Dove tutto si autoricostruisce sbagliato. E aspetti che finisca, chiedendoti come sarà la lezione del mattino seguente.

E dire che la vita mi ha offerto una grande opportunità, in questo periodo a cavallo tra la prima e la seconda metà del mio percorso. Mi sto impegnando per sfruttarlo a farlo fruttare con lei. Con lui. Con me. Su questa ultima parte sono proprio poco pratica, anzi direi decisamente incapace. Ho continuato a lavorare, pensare al lavoro, sognare il lavoro, invece di pensare a me. E poi, questi ultimi giorni è successo qualcosa.

Ma torniamo indietro. Sono a casa da metà dicembre, per un incidente. Sì lo so, sono passati tre mesi (precisi, oggi 18 marzo), e sono ancora a casa. E non riuscirò presto, ancora. Per chi ancora non lo sa, mi sono fratturata tre ossa del ginocchio e sono in attesa di intervento. L’incidente in verità c’era stato all’inizio del mese, ma vivere in Occidente significa vivere al motto di “non posso fermarmi, devo fare tante cose, sono impegnatissima (e il conseguente “non ho avuto tempo di chiamarti”). Cosa c’è di così importante che non si può fermare? Niente, vi assicuro. Perché se niente vale come quel tutto che avete, tutto vale niente senza la salute. Da metà dicembre ad oggi ho attraversato vari stadi: domanda (perché?) –vabbeh (lo stadio del vabbeh è il mio preferito) – rabbia (perché?) –solitudine – ricerca (confusione) – sonno – studio (sono ferma, ne approfitto per imparare qualcosa di nuovo) – film film film – solitudine – stupore – rabbia – pianto – paralisi (“dici sul serio?”…) – piccole felicità -panico.

Gli stadi ci sono stati per cercare un senso a quello che è successo, a questo stop che mi è stato imposto improvvisamente. È questa la domanda che mi sono fatta più spesso, da quando tutto è iniziato. Ho cercato il significato dei gesti di cattiveria che ho subito gratuitamente facendo alcuni della mia malattia una discriminante. Ho cercato il significato dell’abbandono che ho vissuto da parte di altri che non mi aspettavo, ed ho finito per ridiscutere il concetto di amicizia. Ho cercato il senso di famiglia, e la vita mi ha ricordato che va creata, costruita, giorno dopo giorno, e tutti devono fare la loro parte o la costruzione di un’ora si sfascia in un minuto. Ho cercato il senso della vita. Ho cercato il silenzio.

Ma che mi cerco, che non cammino.

Allora ho cercato dal divano un’altra strada, un cambiamento, una nuova prospettiva.

E ho capito che, arrivati a metà del nostro viaggio sulla terra, bisogna muoversi e cambiare, se si ha almeno un sogno nel cassetto ancora non tentato. Ecco, poi qui scatta la fase del “sì ma non ho i mezzi” e questo riduce drasticamente la possibilità del sogno. Torna lo stadio della paralisi. Partono gli altri sogni, quelli notturni, con i militari che occupano la città, bombardano tutto, scendono in strada ad uccidere i sopravvissuti, diffondono virus letali. Tu fai parte della resistenza partigiana. Quella che sai che morirà, ma che vuole soccombere con onore. Trattenere le lacrime è difficile. Rilasciare il coraggio è probabile. Sapere di essere destinati alla morte ed è solo questione di tempo è inevitabile.

Torna lo stadio del panico e, a ritroso, percorre le tappe precedenti – la rabbia, la ricerca, lo stupore, il vabbeh.

Ma questi ultimi giorni è successo qualcosa, ve l’ho detto. La lamina di ghiaccio trasparente che ricopre la paura di vivere si è incrinata. La ricerca dei perché sta perdendo la sua forza. Ho capito che certe cose accadono e non puoi farci niente. Ho capito che da soli non si gestisce niente e ci vuole una compagnia sufficientemente forte accanto, altrimenti oltre ai problemi tuoi ti ritrovi pure i problemi del vicino, e non sempre il vicino lo puoi scansare. E tu finisci morto. Splat.

Stanotte sono ferma, sospesa. Senza voglia di mettermi a letto, senza interesse a dormire, solo tento di sfuggire alla notte che tante volte mi ha tenuto compagnia abbracciandomi con il suo silenzio eloquente. Penso che mia figlia ha una piccola scritta sulla porta della sua camera. Dice “little things make me happy”. Non sono sicura che la legga. Ma di certo le piccole cose vanno godute, altrimenti muori. Di rancore.

Tra qualche ora tutto ricomincerà, voi leggerete che saranno le 8, o forse le 11, di fronte al caffè, sul bus che vi porta al lavoro, o starete rubando dieci minuti di pausa in ufficio. Io mi sarò alzata, o forse starò riposando. Tornerò a pensare alle mie domande, e poi ad evitarne qualcuna, travolta dal ritmo quotidiano del fai-pensa-produci. Tornerò a pensare alle cose che ho capito.

Sulla storia del senso della vita ci starò ancora lavorando.

Photo credits: The Walk by Burcumbaygut

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Piccolo puntino.

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E’ lei. Un piccolo puntino ripiegato su se stesso. Viene da lontano, sola, trascinando con sé a fatica una valigia consumata, piena di ombre e di parole. Ha il volto scavato, il corpo chiuso, i capelli di fronte al viso. Ha uno sguardo macchiato, con cui non vede nessuno. Fissa davanti a sé con occhio vitreo il mondo, che le sta scivolando addosso e che le corre intorno. E’ in una campagna deserta ripiena di un cielo plumbeo. E’ al centro di una piazza, chinata in ginocchio per la stanchezza e la gente la guarda come fosse una poveraccia; una nota di compatimento e di paura, per il non voler sapere. E’ lei, trasparente eppure pesante, nonostante i suoi pochi chili che pesano come ferro, o forse sono molti e pesano come ali. Le ali che vorrebbe avere, per quella valigia che vorrebbe lasciare, e non le si stacca dalla mano. Ogni volta ha preso qualcosa da chi ha incontrato, ed ogni volta ha dato tanto di quello che aveva -ma qualcosa è stato un furto-, fin dall’inizio, quando era piena di buone speranze e la valigia ricca di farfalle. Ha chiuso mille e più porte, non è riuscita a tenere quelle giuste. Ha aperto solo quelle suggerite dalla ragione. Le ha sbagliate tutte. Non può più tornare indietro e vaga nel buio del vuoto, con l’intima speranza di arrivare ad un approdo, ma non sa nemmeno lei più qual è, e pensa che ormai non riuscirà a vederlo. E’ persa. Ha camminato sempre, ogni volta sempre più lenta, ogni volta le gambe più pesanti. Ogni volta la valigia più trascinata. Si è fermata quando la hanno fermata, per dare indicazioni e per sfamare chi le ha chiesto un pezzo di pane. Capitava sempre di fronte a qualcuno che aveva bisogno di un aiuto; a loro, la strada ha saputo indicarla. Nessuno sapeva parlare con lei. Nessuno la sentiva. Ealla fine, per sé, non ha nulla. Non è stata capace di costuire niente. Non cammina quasi più. E adesso provate a dirle che deve andare avanti.

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Silenziosa notte.

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Ci sono cose che tu parli e le dici e loro non si stanno zitte. Quel genere di cose che sai che le devi tacere, perché altrimenti crei danni, ma vorresti parlare. Gridare, dire, fare, come quel gioco che si faceva da bambini. Chi lo sa, forse baciare. Ci sono cose che ti riduci solo a scrivere una lettera e che alla fine ti sembra di pagare testamento. Cose che, sshhh, non si possono dire!, perché se parli poi si fraintende, poi chissà che si capisce! Ci sono cose che non sai veramente più a chi le puoi confessare, perché gli amici non ti ascoltano, a casa non ti guardano, i conoscenti non ti seguono, e tu ti ritrovi da solo con la tua anima, a dire quelle cose che però le fanno tanto male. Ci sono cose che basta, non le vuoi più sentire. Poi vorresti alzare il telefono e sconfessare. Poi vorresti desiderare di non averlo mai fatto.

Ma allora, chi è che ti ascolta davvero, che ti può capire.