tattoo ace of spades

Demone artista

202107262329

La questione di Tinderen e delle tossine è un po’ il tema dominante di questo luglio.

Ho attraversato un mese complesso, che mi ha vista aumentare la mia produzione artistica per la prima volta dopo anni. E questo comunque è un bene.

Ci sono arrivata facendo un giro molto largo, partito nel 2020.

Durante il fermo dell’anno scorso, c’è stata una persona che mi ha fatto riflettere su me stessa.

Ero già avanti nel mio viaggio, ma c’erano degli aspetti che ancora non riuscivo ad affrontare nella maniera giusta per smantellarli, ed altri di cui non ero davvero cosciente.

Questa persona, parlando di sé e facendomi parlare di me, mi ha aiutata inconsapevolmente. Non ha detto cose particolarmente originali che qualcun altro non avesse mai detto. I concetti sono sempre quelli, a volte. Ma si è recettivi in maniera diversa, per via dello scambio di energie che si crea tra persone.

Con alcune, il collegamento è tale che pure se ti dicessero ‘carciofi’, tu ci troveresti un senso molto profondo.

Con alcune persone ti senti più a tuo agio. Di alcune persone ti fidi, o ti fidi di più.

Alcune persone sai che non ti tradiranno, o almeno così dovrebbe andare – poi, la vita accade -, perché sono le stesse persone che si raccontano con te, e con te mettono la loro anima a nudo, tirando giù le barriere della mancanza di fiducia, sentendosi finalmente liberi.

Alcune persone entrano a far parte di te e tu non ti sei nemmeno accorto come, quando è successo, perché, né quanto ti stiano aiutando a riflettere e crescere.

Atteggiamenti e abitudini dell’altro che danno forma ai tuoi lati oscuri, a un tratto sono lì di fronte a te, e hai due scelte: rifiutare di nuovo tutto a prescindere, solo perché lo hai sempre fatto e non conosci altra strada, o ammettere ciò che è altro da te, diverso da te, l’ombra di te, e accettare di cominciare a scavare, in un viaggio verso il basso molto doloroso.

Penso a emozioni incompiute, che hai messo a bollire lasciandole attaccare sul fondo della pentola e non avendo il coraggio di avvicinarsi più, perché la puzza è troppa.

Sembra tutto molto complicato?

In realtà non lo è. Fatemi riportare il concetto a un livello semplice:

Ci sono persone che ti aiutano ad aprire gli occhi sulla tua stessa vita e ti danno quella spinta necessaria a uscire dal tuo torpore e affrontare gli ultimi demoni rimasti.

Tra i demoni rimasti, c’era quello della creatività, sempre lasciata là, buttata in un angolo, un po’ maltrattata, poverina.

Accettare di essere un’artista, in un mondo – quello contemporaneo – che di fatto espelle il concetto prima ancora che sia nato, è stato il durissimo passo successivo.

Con la ripresa del mondo, e la necessità di portare avanti la vita così com’era, il demone artista ha sviluppato tutto un suo piano B. Sviluppato, abbozzato, ma ancora leggermente offuscato. Fino a questo luglio. La persona che mi ha aiutata in questo viaggio complice fino alla fine.

E anche qui, ho avuto due scelte: chiudermi e tornare indietro a ciò che conoscevo già e avevo già fatto mille volte, o mettere in pratica ciò che avevo imparato nell’ultimo anno, liberare le tossine, prendere il demone artista per le corna (non lo so, ce le ha le corna?) e approfittarne per cavalcarlo. Ora o mai più.

Si dice che alcuni artisti producano meglio quando soffrono. Altri fanno molto di più quando sono felici. Io non rientro nella seconda categoria. Ma va bene, ognuno sfama il proprio demone come meglio crede, come meglio sa fare. Il mio sta mangiando pensieri, gocce di sale, parole, foto, disegni su carta e sulla pelle. Sta mangiando note musicali. Si sta mangiando anche le ore notturne, e va a fare il rettile al sole.

Ero su youtube, l’altro giorno, e l’occhio mi è caduto su un commento sotto a un video:

“and that’s why I get excited when artists start dating, when they break up they release some fire tracks”.

Mi ha fatto sorridere un bel po’. Ho pensato che è cinico, ma anche tanto vero.

Artist demon

The thing with Tinder and toxins is the dominant theme of this July.

I had a complex month, during which my art production increased for the first time in years. I actually got here by taking a very wide loop, started in 2020.

During last year’s detention, there has been a person who helped me make some self-reflection.

I was already well along on my journey, but there were some aspects that I still couldn’t deal with properly, and some others that I wasn’t totally aware of.

This person talked and made me talk, and he unknowingly helped me. He didn’t say anything that was particularly original. The basic concepts are always the same, but one is receptive in a different way, depending on the exchange of energies that happens between people.

With some of them, the connection is such that even if you were told ‘artichokes’, you would find very profound meaning in it.

You feel more comfortable with some people. You trust them.

Those won’t cheat on you, or so it should be – then, life happens -, because they’re the same people who get their soul naked with you, putting down the walls of trust issues, finally feeling free.

Some become a part of you and you don’t even know how it happened, when, why – or how much they are helping you to reflect and grow.

Attitudes and habits that are the shape of your dark sides, suddenly become real in the other person, and you have two choices: to reject again regardless because that’s what you always do, or to admit what is other than you, and start doing your shadow work.

I am talking unfinished business, complex emotions that you’ve put to a boil by letting them stick to the bottom of the pot and not having the courage to get closer because the smell became too strong.

Does this all sound complicated?

It really isn’t. Let me bring the concept back to a basic level:

There are people who help you open your eyes and give you the boost you need to get out of your slumber and face the last remaining demons.

Among the demons left was creativity, always left there, thrown in a corner, a little mistreated, poor creature.

Accepting to be an artist, in a world – the contemporary one – which in fact expels the concept even before it’s born, was the very hard next step.

With the world opening back up, and the need to carry on with life as it was, the artist demon developed a whole plan B. It was sketched, but still slightly clouded. Until this July – the person who helped me in this journey, complicit to the end.

And again, I was left with two choices: shut myself up and go back to my usual past, or set myself free, put into practice what I had learned the last year, release the toxins, take the artist demon by the horns (does he have horns?) and ride this opportunity. Now or never.

It is said that some artists perform better with suffer. Others do much more when they are happy. I don’t fall into the second category. But that’s okay, everyone feeds his artist demon as they see fit. Mine is eating thoughts, drops of salt, words, photos, drawings on paper and on the skin. He is eating musical notes. He is also eating night hours, and going reptile in the sun.

I was on youtube the other day, and my eye fell on a comment under a video:

“and that’s why I get excited when artists start dating, when they break up they release some fire tracks”.

It made me smile. I thought it’s cynical but very true.

selfie da sotto, per una volta

Di questi anni cosa resta

di questi anni che cosa resta,

se questi ancora si svolgono con le loro carni lacere al fianco, cercando di nasconderne l’usura, la vergogna e gli errori.

di questi anni cosa resta,

sul tavolo del salotto mentre facciamo pranzo, e i telefoni si impossessano sempre di più delle nostre dita, il nuovo quoziente intellettivo globale sempre più in basso, la nostra capacità di pazienza sempre più stretta, con la sua voce sempre più in alto che cerca di giocare a fare la grossa.

di questi anni cosa resta, e cosa resterà di questi passi, passati a smontare le tende per lavarle, a pulire maniacalmente le mattonelle di casa, a lucidare le maniglie dei mobili. tutti gusti all’italiana, di cose che facevo da italiana, che tradivano, ogni volta, uno “sto male devo pensare”, che mi ricordano mia madre;

che mi ricordano che ho chiesto vacanze e non ho ancora comprato il biglietto. forse andrà solo lei, la piccola che questo anno se lo merita. e io, madre, vorrei che andasse, per farla tornare a volare;

che mi ricordano che non ho vacanze, non ho programma, e quel che c’era non c’è più. e anche se lo avessi, non si sentirebbe.

cosa resta di questi anni,

se la cara compagnia sparisce?

forse una rosa del deserto.

forse un impalpabile alito di vento.

forse una croce.

di questi anni che cosa resta,

di queste cene, di questi anni, di questi pomeriggi vuoti non apprezzati, e noi pellegrini andavamo a inseguire le onde per cercare anche solo una gioia, pur sapendo, che era effimera, solitaria, un po’ buia, dimessa, non caciarona, sorniona.

una gioia non dedicata; una gioia non attenta.

una gioia un po’ sbadata.

ma erano quei giorni, quei giorni che ti chiedevi che cosa facciamo, perché ci siamo, perché non chiami, perché non ami, perché non ci sono gli amici, perché non viene nessuno, perché sono tutti partiti, perché chi ti pensa non lo dice, perché chi lo dice te lo sbatte in faccia, con cattive intenzioni.

erano quei giorni, quei giorni in cui non ci sono i biscotti, e tu ti chiedi che fine hanno fatto. non sono pronta a perdere in biscotti. non sono pronta a perdere te.

casa4.jpg

Sentirsi a casa. Pensieri confusi in ordine sparso

(201808220131)

C’è stato un tempo in cui pubblicai la foto che vedete qui sopra, con questa didascalia:

La mia casa non è in nessuna città.La mia casa è un’altra testa che ragiona come la mia testa. Ecco. Non è il dove. E’ il come, con chi.

La avevo legata ad uno scritto, questo qui. La foto era stata scattata a Lignano, nell’agosto del 2010. Lo scritto era di qualche mese dopo. Citavo Erasmo, citavo Rotterdam.
Pensavo l’Olanda lontana anni luce, anzi direi del tutto incalcolata – non era affatto nei miei programmi; eppure, in perfetto stile “nulla capita a caso”, questa nazione e il titolo di quell’articolo nel corso del tempo hanno assunto un altro sapore.
Non voglio nemmeno provare ad infilarmi in un’interpretazione del destino.
Il punto è che in quell’articolo parlavo di casa. In quella foto parlavo di casa e oggi, nel 2018, precisamente stamattina, mi sono di nuovo fatta quella domanda: qual è casa.

Già, qual è casa?

Cos’è che la definisce?
All’ennesimo giro di boa e cambio di appartamento, sono di nuovo che ci penso, e una risposta continuo a non averla.

Ho visto e visitato miriadi di case, in generale, di gente straniera e non, in Italia e all’estero. 
Parlo ovunque con chiunque, sono una che fa conversazione e che ascolta storie dappertutto.
Lavoro in hotel, prendo treni e frequento aeroporti ogni giorno, potete immaginare quanta umanità io viva quotidianamente.

Vedo persone intorno a me scontente, certo, ma ne vedo altrettante felici e soddisfatte.
Vedo gente spostarsi e avere problemi per questo, ma comunque cercare di adattarsi.
Costruiscono nidi, scelgono il colore delle pareti, cambiano l’arredamento.
Si sentono a casa, pur essendo lontani dall’origine migliaia di chilometri o anche solo dieci metri.
Io, dall’articolo di Erasma, ho continuato a viaggiare in lungo e in largo e ancora non ho trovato un posto dove fermarmi perché mio.

Mi fermavo volentieri su un divano bianco che avevo, questo sì.

Non proprio bianco, era un po’ caffellatte; un po’ ruvido che se ti sedevi in calzoncini ti facevi male alle gambe.
Lì c’era aria di casa. Era un ambiente quasi tutto bianco ma non sterile.
Un’altra delle case in cui ho vissuto, invece, era quasi tutta sterile ma non bianca.
A volte, per quanto ti sforzi di abbellire l’ambiente, non ottieni niente che abbia calore.

Allora forse la casa è dove c’è calore.
Ma calore di cosa o di chi?
Non dovrebbe venire da se stessi, o ci vuole una famiglia?
Eppure, quando vado da mia madre, mi sento a casa anche se lei non c’è.
Quindi casa non sono le persone.
Ma nemmeno l’ambiente.
Forse sono i ricordi.
Magari casa sono i ricordi belli, che quelli brutti non li vuole nessuno come definizione di casa.

Quando ero piccola – ma nemmeno tanto piccola, diciamo più quando ero ragazza – volevo vivere in albergo. 
Parlavo con mio padre, che mi spiegava che aveva fatto i calcoli: non conveniva possedere un appartamento perché, a conti fatti, la spesa globale tra bollette, manutenzione e affitto costava quanto un residence, con gli evidenti vantaggi che quest’ultimo comportava.
Pianificavamo di vivere così, alla sua pensione.
Non ci è arrivato, ma quando ne parlavamo anche un residence sapeva di casa.

Quindi oggi, fine agosto 2018, mi trovo ancora a non sapere dove andare e a non sentirmi in nessun luogo.

Però ho cinque certezze, e le voglio condividere con voi. 

Nel frattempo: pensate alla vostra definizione di casa.

Mi sento a mio agio quando torno nella casa di Roma.
Ci sono alcune città nel mondo che mi mandano buone vibrazioni.
Sono sinceramente contenta per le persone che dichiarano di sentirsi a casa nelle loro circostanze – non so come fate né perché, e vorrei tanto vivere quello che sentite, ma vi ammiro e sono felice per voi.
Le tre grandi domande del mondo sono “cos’è l’amore”, “qual è il senso della vita” e “che significa casa”.
Continuerò a viaggiare, ascoltare e osservare, per cercare la risposta a tutte e tre.

of_ashes_by_lostknightkg-dadjdpz

Ceneri

(photo credits: “Of ashes”, by Lostknightkg-dadjdpz)

 

Un foglio bianco.
Due argomenti.
Nessuno dei due affrontabile.
Una casa vuota.
Un cuore vuoto e pieno.
Una testa satura.
La certezza che qualcosa stia morendo.
La consapevolezza che qualcuno stia rinascendo.
C’è chi danza sulle mie ceneri.
Una nasce, dalle mie ceneri.
Uno campa delle mie ceneri.
Il grigio invecchia.
Una musica di sottofondo.
Mille notti solitarie.
Una vita solitaria, creata, voluta, non voluta.
I dadi a riposo.
Le scommesse finite.
Trenta mesi da lasciare andare.
Il buio dopo.
Il niente prima.
Il limbo ora.
L’attesa sempre.
Il silenzio comunque.
Le note tutte.
La vita mancata.
Il bacio, contatto sfumato.
Il cuore perso.
L’anima affogata.
La speranza flebile.
L’inesistente concretezza.
Il passato che non torna mai.
Il futuro non teorizzabile.
L’amore, cieco.
La polvere sparsa.
La terra che non riconosci.
Le unghie che cercano di aggrapparsi e scavare, bramando in un vuoto di plastica a pochi passi.
Due luci a pochi soldi.
L’infinito è tutto intorno.
“Dust and ashes”, by Flexdreams-da2er0y
IViaggidellaDruida-PaolaRagnoliselfie

Di come posso sapere cosa accadrà nel 2018 + una domanda per voi

(201801012036)

Esattamente il 1 gennaio 2017 aprivo ufficialmente partita iva.

Avevo immaginato molte volte me stessa in miriadi di attività imprenditoriali ed indipendenti, con grande fatica in Italia, per la solita questione di tasse e burocrazia.
Ho sempre coltivato idee. Alla fine, ho finito per piantarne una in Olanda.
Al semino piantato ho dato il nome di The Dots Connection. Il suo compito era quello di raccogliere i miei vent’anni di esperienza in comunicazione e metterli al servizio di ognuno di voi, come guida personale.
Tuttavia, per quanto l’idea piantata mi intrigasse, non potevo abbandonare la creaturina, ovvero il posto dove siete ora. Ho deciso dunque di registrare, sotto la stessa partita iva, anche il nome I Viaggi della Druida, e di affiliargli tutta l’area di creatività e arte, di cui la mia micro-impresa è dotata.
Nel corso del 2017, ho lavorato con entrambi i nomi. E, per certi aspetti, ho finito per fare con entrambi attività inaspettate.

Perché vi racconto tutte queste cose?

Qualche anno fa, un giorno di fine dicembre, ho scritto un post di auguri per l’anno a venire e, nel tempo, lo ho riproposto spesso. Ci credo sempre, e ancora lo riscriverei proprio come lo avevo prodotto allora.
Quest’anno, però, sento l’esigenza di fare il punto in anticipo.
Non posso dire di aver amato il 2017, ma nemmeno di averlo odiato.
Ho avuto ciò che ho chiesto, anche se non nei termini in cui lo immaginavo. Ma i termini in cui le cose si sono presentate hanno portato, a loro volta, ad altre situazioni che altrimenti non ci sarebbero mai state (o forse sì, ma chissà con quali altre infinite varianti nello spazio della vita).
Non ho avuto i lavori che pensavo. Ho avuto un gran numero di cadute accidentali più un danno da gatto, che tutte insieme hanno fatto giocare tutte le mie articolazioni. Ho avuto un gatto, e chi pensava di prenderne uno. Non sono tornata da mia madre a Natale. Ho avuto un numero imprecisato di raffreddori, otiti e febbri al punto che ho smesso di contare le malattie. Ho faticato mentalmente, più di quanto avrei dovuto e voluto. Ho avuto delusioni clamorose. Ho visto ancora l’egoismo umano, è ovunque oh, e son pure convinti di averci ragione. Mi hanno dato della femminista: ahah, a me! Ho avuto dei lutti.
Allo stesso tempo, ho insegnato a studenti universitari. Ho avuto la possibilità di trasmettere la mia visione di un utilizzo consapevole degli strumenti di comunicazione. Ho svolto una montagna di lavoro gratuito che mi ha portato a conoscere persone e storie interessantissime, e mi ha portato anche a lavori remunerati. Ho avuto una maggiore conferma delle persone che posso considerare presenti per me e a quale livello, e di quelle per le quali io sono disposta ad essere presente. Sono tornata in Italia in un viaggio improvvisato. Ho fatto una settimana di mare bella come un mese, e spero tanto di poterla rifare anche l’anno prossimo. Ho conosciuto di più mia figlia. O meglio: mia figlia mi ha permesso di conoscerla. Ho conosciuto di più me stessa.

Per questa maggiore conoscenza di me stessa, senza che mi serva la veggente so già cosa accadrà nel 2018 e posso fare il punto in anticipo.

Ho avuto il mio semino imprenditoriale piantato e già vedo come deve cambiare e svilupparsi: sono in arrivo grandi sorprese e novità. Ci sarà da lavorare davvero tanto, ma ne varrà la pena.L’unico lavoro che vale la pena fare nella vita è quello che faresti anche gratis.
Il viaggio (tutto! chilometri e non) è il cardine del mio pensiero, del mio cuore, del mio animo e della mia vita.
Insieme è meglio di soli e da soli, sempre e comunque. Non credete a chi vi dice il contrario o a chi simula di esserci ma agisce solo per sé.
Il corpo è un mezzo di spostamento che, finché c’è, va curato e coccolato (lezione vecchia che vale sempre la pena ricordare).
C’è molto più di quel che ho scritto sopra, ma per ora va bene così.
Un buon rossetto risolve cose.
Vi lascio con un mio selfie di Natale 2017 e, se non avete niente da fare, potete provare a immaginare quali sono le cose che questo rossetto potrebbe aver risolto.
Per ultimo, vi faccio una domanda:

siete pronti ad abbracciare quel che arriva, senza ostacolarlo con tutte le vostre forze?

SolitudebyIsacGoulart

Se avessi attraversato il mondo

(201709160050)
Se non avessi attraversato il mondo, ora non sarei qui.
Se non mi fossi slacciata le scarpe, non avrei provato la sensazione dell’acqua gelida di un torrente in agosto.
Se non mi fossi tenuta le scarpe, non avrei potuto camminare sui sassi.
Se non avessi attraversato il mondo, oggi sarei altrove.
In un mondo ‘altro’. Un mondo ‘diverso’.
Un mondo fatto di cose che non so e che non saprò mai.
Un mondo di scelte alternative, belle o brutte, bionde o brune, luminose o grigie.
Un mondo da bere o da prendere a morsi.
Se non avessi aspettato quell’autobus, quel treno, quella bicicletta, non avrei conosciuto l’amore.
Se non avessi atteso abbastanza il verde al semaforo, sarei morta da qualche parte, di quelle morti da distrazione con la testa tra le nuvole.
Se avessi avuto la testa tra le nuvole, se la avessi ancora, avrei visto e vedrei i gabbiani chiamarsi l’un l’altro, mentre disegnano spirali di aria nel cielo, e ci guardano dall’alto verso il basso, a tutti noi, che operiamo come formiche, nella più assoluta mancanza di libertà.
Ma se non avessi avuto la testa tra le nuvole, mi sarei persa le gioie più grandi della vita, tutte quelle che ho creato dal nulla, riflettendoci sopra con il cuore, l’istinto e l’immaginazione; tutti i castelli in aria costruiti su castelli di sabbia; tutti i minerali luccicanti in essa racchiusi, visibili solo mettendo la testa in una certa inclinazione.
Se mi fossi tenuta le scarpe, non avrei mai danzato.
Non avrei ballato con le stampelle. Non avrei sentito il variare delle superfici sulle quali camminiamo credendo di essere protetti, quando non lo siamo per niente, perché, se vuole, la natura spacca tutto, con la potenza delle sue radici.
Se non avessi conosciuto Benni, non mi sarei fermata a celebrarlo scoprendo per la prima volta la terrazza del primo locale che avevamo a disposizione in quel momento, il Gin Tonic che avevo da sempre ignorato, e il mio nuovo ricordo intimo da inserire nel barattolo dei preziosi che non aprirò mai o che, anche se aprirò, non si sfascerà mai perché contiene solo cose che sono già state tutte tatuate sopra e dentro di me.
Se non avessi la lampada di Wood, dovrei cercare con i miei occhi normali le malefatte che nascondete. Ma tanto le vedrei lo stesso.
Se non avessi attraversato il mondo, la nazione, la città, la piazza, il portone di casa, il salone delle feste, la cucina, il bagno e infine la camera da letto, oggi forse avrei smesso di pensare a una domanda che mi tormenta da qualche giorno: ma io, esattamente, cosa ho fatto fino ad ora?
Ora che queste parole scendono e rimbalzano con dolcezza, come un tappeto elastico piccolo e costruito al centro di un bosco, ora e qui siamo da soli, io con il tappeto elastico, le mie parole e la frase gettonata.
Se non avessi attraversato il mondo, o lo avessi fatto con te, o con te, o con te, oggi vivrei un altro mondo ancora.
Fatto sempre di scarpe.
Fatto sempre di puntate al mare ogni tanto, perché mi sto accorgendo maledettamente che, più cresco, più il mare mi mantiene in vita ed è straziante farne a meno.
Quello del mare è un altro mondo fatto di blu, e sole, e balli in 2 metri quadri. Di luci flebili. Di invito all’arte. Di volti, di ricordi lontani che si racchiudono in bolle di sapone e ti guardano sorridenti.
Ma cosa c’entra il tema del viaggio, con tutto questo?
C’entra, perché questo è un viaggio interiore. Che si svolge in movimento, con e senza calzature, raccontando di scarpe, di piazze e di posti, dove c’era chi io sono andata a prendere.
Per queste persone a volte ho combattuto, spogliandomi di pesi e pregiudizi. Sono andata controvento, ho volato, mi sono arrampicata, ho sfidato le leggi della fisica creandone di mie. Queste persone sono state avvolte in una coperta calda, con una tazza di bevanda calda. Quando sei convinto di sentire il freddo, la tazza calda ti serve.
Poi, lentamente, ho cominciato a ritirarmi. A incurvare la schiena, a guardare negli occhi ma con un sorriso invece di due, mentre il corpo si ripiegava su stesso, in maniera impercettibile.
Ho indietreggiato, nascosta tra le file. Ho guardato quelle persone mentre si divertivano, e smettevano di cercarmi. Lo facevano perché non ero più io quello di cui avevano bisogno. Io ero il gentile passaggio per l’altra strada, quella che si deve fare con un salto, o che richiede un ponte.
Io avevo quel ponte.
Avrei potuto scegliere di restare lì. A fissare il ponte, a guardare chi, dopo qualche tempo di festa e vita irrealizzabile, sarebbe comunque andato via, dietro alla voglia di scoprire cosa c’è dopo. Ho scelto di camminare, me ne sono andata lentamente, dopo la certezza che il desiderio era stato realizzato, una situazione sbloccata, un percorso compiuto.
Me ne sono andata.
Me ne sono andata e, a volte, qualcuno mi ha chiesto perché.
“Perché dopo aver lottato tanto, dopo aver combattuto, dopo avermi tirato fuori da dove stavo, semplicemente vai?”
Boh. Non lo so perché.
Forse perché il percorso, il percorso di entrambi, era finito.
Forse perché sono una solitaria.
O una senza aspettative particolari, che vuole aiutare quanto può.
O una con aspettative eccessive negli altri, che poi resta delusa e deve andare.
O una innamorata delle idee.
O forse, forse sono così e basta. Un mix di due immagini che abbiamo tutti dentro di noi ma che io faccio vedere: quella che cammina storta sui tacchi e se ne nasconde, quella che vede i giochi dei bambini e allo stesso tempo li odia.
Quella riconoscibile da una piccola riga che cammina per terra al suo fianco; è il segno di una lacrima, che sta fissa, scende lì, la accompagna. Quella lacrima è la dote d’oro, il filo di Arianna. La collana con cui vestirsi.
Quella lacrima ha poche dediche ma, più di tutte, è per me stessa: è la grazia per ogni cosa che ho trovato e che ha lasciato traccia quando ho proseguito.
Ricerca del nuovo e conta del tempo non sono in accordo.
Se avessi attraversato il mondo abbastanza, oggi me ne vorrei restare sdraiata come questa signorina, dolce, pensierosa su un pontile, con la coscienza a posto di chi ha lasciato andare la cose giuste.
Il mio viaggio non è ancora terminato.
photo credits: Pholwises, Peaceful solitude
stairs-pexels-PaolaRagnoli-IViaggidellaDruida

Scale

(201706282344)

In questo momento sono qui.

Qui dove, direte voi, vediamo solo quattro gradini e un buio sopra e sotto.

Esatto: sono nel punto che non si vede, che può essere uno qualunque.

Questo accade perché non lo so nemmeno io qual è il mio ‘qui’.

Ho scelto una foto delle scale perché, mio malgrado, temo siano diventate il mio oggetto simbolico, il mio switch del cambiamento, la mia cartina tornasole, il giro di boa, e il luogo in cui mi ammazzerò, probabilmente, se continuo così.

Novembre 2009. A un concerto, salto letteralmente al buio circa 3 gradini per un’altezza totale di un metro. Manca il corrimano, c’è il vuoto alla mia sinistra. Metto il piede lì, nel niente. Cado di schiena, sbatto la testa. Dolori atroci, ospedale il giorno dopo, quattro mesi di analisi, collarino, sedativi, antiepilettici, cortisonici. Mal di testa, difficoltà di linguaggio, tremore a una mano. Chiusura di un grosso capitolo della vita a febbraio 2010: piena di rabbia, lancio il collarino. I dolori, lentamente, cominciano a passare. Mi ammalo di altro, ma almeno cammino.

Dicembre 2014. Su un tram che frena troppo, scivolo su una manciata di gradini, ruotando sul ginocchio destro. Non cado. Dolori intensi, ospedale due settimane dopo. Due ossa rotte, cartilagine andata, un intervento, sei mesi di letto. Infiltrazioni al ginocchio. Codeina. Due anni di fisioterapia. Overdose di pensieri. Perdo tutto, rinuncio a ciò che resta. Chiusura di un grosso capitolo della vita ad agosto 2016. I dolori, lentamente, cominciano a passare.

Giugno 2017. Dalle scale di casa, salto, di nuovo al buio, gli ultimi gradini alle 3 di mattina, per seguire il gatto. Manca di nuovo il corrimano, i gradini girano verso sinistra, non ne sento uno. Cado di ginocchia, appoggio sul sinistro. Dolori alle gambe. Lividi, niente ospedale. Anche niente medico, siamo in Olanda. Ancora codeina. Comincio a chiedermi che problema ho, io, con le scale. I dolori, lentamente, cominciano a passare.

Giugno 2017, sei giorni dopo. Al centro delle scale di una casa, cado all’indietro. In quel punto la scala si allarga, e i gradini girano a sinistra. Non voglio ancora, no. Ma è chiaro che sono indebolita. Mi aggrappo, un braccio provato dai lividi dei sei giorni prima, l’altro indebolito da un danno permanente del gatto. Ruoto ancora sulla gamba destra, giro anche la sinistra. Fermo la caduta al terzo gradino. Un, due, tre, ho visto brevemente la storia della mia vita e gli unici tratti salienti che mi sono venuti in mente – i miei affetti. Dolori, ovunque. Sospetto che le scale stiano cercando di mandarmi un messaggio.

Sospetto che le scale mi stiano fermando.
Forse c’è qualcosa che devo vedere.
Forse c’è qualcosa che devo cambiare.

Forse devo solo far uscire di casa il gatto.

take_off_by_herpoeticeulogy

Il segreto dell’amore

(201603301130)

Alla fine il segreto dell’amore è semplice.

Tutti hanno ragione, a 3 anni, a 30, a 60. Tutti lamentano le stesse cose.

E’ ascoltando le persone piangere e parlare che lo ho scoperto. Il suo altarino. L’ingrediente segreto. Il santo graal dei baci infiniti.

E insomma, il segreto dell’amore è solo uno.

Herpoeticeulogy, Take Off

Amore vuol dire dividere con l’altro.

Ti amo se divido con te l’ultimo pezzo della mia torta.

Ti amo se voglio dividere con te le mie caramelle.

se mi alzo dal divano al tuo posto perché tu possa riposare e io voglio fare una cosa per te.

se ti copro i piedi quando dici che hai freddo.

quando ti lascio l’ultima fetta di pizza.

quando ammorbidisco i miei lati duri per piacerti.

quando lo hai capito e, sorridendo, fai lo stesso per me.

ti amo, se faccio i compiti con te.

se ti preparo il tè all’una di notte perché stai male.

se mi privo della mia serie tv consueta perché sta iniziando il tuo programma preferito.

se metto due forchette nello stesso piatto di pasta.

Mi ami se mi dai metà del tuo piatto di pasta.

mi ami quando mi imbocchi.

Ti amo quando non dormo fino a che non sei guarito.

se mi sveglio con te quando devi uscire presto solo per prepararti il caffè ed ascoltarti fare il riepilogo delle cose che ti aspettano.

mi detesti quando voglio fare una foto con te, mi ami quando poi la vedi e ti ricorda di noi.

ti amo quando ti passo i miei segreti.
Ci amiamo quando possiamo stare in silenzio.

Mi ami quando mi chiedi di reggerti portafoglio e telefono nella mia borsa.

Da grandi, ti amo quando ti sono vicino, parliamo, giochiamo, ridiamo e ci abbracciamo e tutto questo basta, e non fa pensare al sesso.

Ti amo quando smetto di pensare a te come un adulto con cui devo interagire con tutti gli strumenti che le nostre età ci hanno dato a disposizione, e comincio a pensare a te come una persona con un passato, un elenco di paure, di chiusure, di bruciature e di debolezze.

ti amo quando, se non posso averti fisicamente, non me ne accorgo nemmeno. Perché meglio con te a dividere caramelle che senza di te a dividere il vuoto.

una caramella vale più di mille relazioni.

D4zmiye, Candies

Ascoltare e Condividere.

Che tu abbia 3, 30, o 60 anni, il segreto dell’amore è tutto qui.

hug_by_hjstory

Quelli che restano

art: hug_by hjstory

(201506200303)

Lo penso da sempre. E alcuni momenti, lo penso di più. Come stasera, quando nei fili del mio udito sono passate le battute di chiusura del Miglio Verde.

Le persone sono importanti.

Perché dopo che abbiamo tolto tutto, i vari non-ho-tempo, ci-sentiamo-dopo, ti-richiamo, sono-stato-molto-impegnato, che cosa ci resta?

Sì lo so, è il ritmo della vita, della parte egoista di ogni essere umano, che ognuno di noi almeno una volta ha messo in scena.

Sì è vero, dobbiamo morire tutti e non sappiamo se noi saremo i primi, forse fortunelli, o gli ultimi, quelli straziati che rimangono soli alla vecchiaia mentre tutte le persone alle quali abbiamo voluto bene non ci sono più, quindi alla fine che importanza hanno gli affetti ed evviva il viaggio.

Ma avete mai dovuto dire addio a qualcuno che se ne stava andando di fronte ai vostri occhi? E’ straziante.

E avete mai dovuto dire addio a qualcuno che se ne è andato così rapidamente da non lasciarvi il tempo di spiegare quella frase del giorno prima? E’ straziante.

E se togliamo tutto, i vari non-ti-scrivo-perché-non-so-cosa-dire, ora-non-ho-voglia, domani-lo-faccio, basta-sono-offeso, con-te-non-gioco-più, che cosa ci resta?

Se non hai nemmeno la buona salute, che cosa resta?..

Restano le persone.

Quelle che danno al tuo viaggio un senso, e che rendono tutto quel non-ho-tempo prezioso come una gemma, perché senza di loro vivremmo in maniera diversa e, forse, avremmo poco da condividere di una preziosità senz’altro meno scintillante, a quel punto. Quelle che ti consigliano, che non sono mica facili da trovare. Quelle che ti ascoltano, che del genere discreto sono rare e se vuoi andare sul sicuro devi pagare lo psicoterapeuta.

Tutto è-importante? Allora nulla lo è.

Ci vorrebbe una scala, una bella scala di legno, magari dipinta di bianco che fa tanto prato in fiore e casa di campagna in primavera. E dovremmo usare questa scala come un contenitore dove riporre ciò che ci sta più a cuore. Magari sistemiamo tutto anche in ordine di importanza, in cima il nostro irrinunciabile, e via a scendere. Quanti lo-faccio-dopo e non-ho-tempo avete messo, e quante persone avete sistemato?

Prima tutto era importante, ora sulla scala avete dovuto dare un ordine.

Il mio prevede le persone.

E quando lo spazio si farà vuoto, prima o poi, non avrò rimpianto di non averci messo un si-è-fatto-tardi. Perché tanto queste espressioni il buco lo avrebbero lasciato comunque, o non si sarebbero presentate per occuparlo.

Resterebbe una cosa da fare, dopo aver ordinato correttamente i gradini da percorrere e coloro con i quali fare quei passi: tentare di reggere le persone per non farle cadere.

Mi dicono che sia vietato usare la colla e altri stratagemmi simili, potrebbero causare irritazione -dermatologica e umorale. No anche ai piedi inchiodati: è sconveniente. Ci sono dei sistemi magici, però,  ho sentito parlare di druidi, maghi e botteghe, roba da alchimisti, qualcuno racconta di amore, qualcuno di pazienza.. qualcuno di sordità.. ma forse quest’ultimo era un burlone 🙂

Ognuno deve trovare il suo metodo per poter creare la sua scala personale, che non è e non sarà mai meno verde di quella del vicino, prima di tutto perché è bianca e poi perché ci sono i nostri non-lo-so e i nostri pilastri. Tutta davvero farina del nostro sacco.

Adesso tocca a voi. Che scala vi fate?Io voglio quella senza gli avrei-potuto.

“E con le persone? So’ due etti signò, che faccio, lascio?” “Lasci lasci.. che le persone sono importanti.”

hug_by_lokaian

TheWalkbyBurcumbaygut

Insurgent

(201503180145)

È veramente tardi. Continuo ad avere la sveglia alle sei e un quarto. Non la metto d’abitudine; soprattutto ora che sono stata esonerata da ogni attività, potrei dormire. La metto per mia figlia. Mi alzo, le preparo la colazione, mi prendo cura di lei svegliandola dolcemente, la convinco a fare un piccolo sorriso mattutino. Tutte le mattine, nel tragitto che separa il letto dalla porta, tengo lezioni sul volersi bene, parlarsi, sorridersi e sorridere alla vita. Ogni tanto non funziona, il meccanismo si inceppa: lei forse apre il telefono legge qualcosa su qualche chat o semplicemente la luna è in quadratura e non trova le chiavi di casa, ed esce adombrata; pronta a far crescere quell’angoletto scuro per tutta la giornata, ma che scarica solo una volta tornata a casa dalle lezioni. E quella che comincia da lì, dal pranzo alla cena, può diventare una delle giornate più lunghe dell’anno. Dove tutto si autoricostruisce sbagliato. E aspetti che finisca, chiedendoti come sarà la lezione del mattino seguente.

E dire che la vita mi ha offerto una grande opportunità, in questo periodo a cavallo tra la prima e la seconda metà del mio percorso. Mi sto impegnando per sfruttarlo a farlo fruttare con lei. Con lui. Con me. Su questa ultima parte sono proprio poco pratica, anzi direi decisamente incapace. Ho continuato a lavorare, pensare al lavoro, sognare il lavoro, invece di pensare a me. E poi, questi ultimi giorni è successo qualcosa.

Ma torniamo indietro. Sono a casa da metà dicembre, per un incidente. Sì lo so, sono passati tre mesi (precisi, oggi 18 marzo), e sono ancora a casa. E non riuscirò presto, ancora. Per chi ancora non lo sa, mi sono fratturata tre ossa del ginocchio e sono in attesa di intervento. L’incidente in verità c’era stato all’inizio del mese, ma vivere in Occidente significa vivere al motto di “non posso fermarmi, devo fare tante cose, sono impegnatissima (e il conseguente “non ho avuto tempo di chiamarti”). Cosa c’è di così importante che non si può fermare? Niente, vi assicuro. Perché se niente vale come quel tutto che avete, tutto vale niente senza la salute. Da metà dicembre ad oggi ho attraversato vari stadi: domanda (perché?) –vabbeh (lo stadio del vabbeh è il mio preferito) – rabbia (perché?) –solitudine – ricerca (confusione) – sonno – studio (sono ferma, ne approfitto per imparare qualcosa di nuovo) – film film film – solitudine – stupore – rabbia – pianto – paralisi (“dici sul serio?”…) – piccole felicità -panico.

Gli stadi ci sono stati per cercare un senso a quello che è successo, a questo stop che mi è stato imposto improvvisamente. È questa la domanda che mi sono fatta più spesso, da quando tutto è iniziato. Ho cercato il significato dei gesti di cattiveria che ho subito gratuitamente facendo alcuni della mia malattia una discriminante. Ho cercato il significato dell’abbandono che ho vissuto da parte di altri che non mi aspettavo, ed ho finito per ridiscutere il concetto di amicizia. Ho cercato il senso di famiglia, e la vita mi ha ricordato che va creata, costruita, giorno dopo giorno, e tutti devono fare la loro parte o la costruzione di un’ora si sfascia in un minuto. Ho cercato il senso della vita. Ho cercato il silenzio.

Ma che mi cerco, che non cammino.

Allora ho cercato dal divano un’altra strada, un cambiamento, una nuova prospettiva.

E ho capito che, arrivati a metà del nostro viaggio sulla terra, bisogna muoversi e cambiare, se si ha almeno un sogno nel cassetto ancora non tentato. Ecco, poi qui scatta la fase del “sì ma non ho i mezzi” e questo riduce drasticamente la possibilità del sogno. Torna lo stadio della paralisi. Partono gli altri sogni, quelli notturni, con i militari che occupano la città, bombardano tutto, scendono in strada ad uccidere i sopravvissuti, diffondono virus letali. Tu fai parte della resistenza partigiana. Quella che sai che morirà, ma che vuole soccombere con onore. Trattenere le lacrime è difficile. Rilasciare il coraggio è probabile. Sapere di essere destinati alla morte ed è solo questione di tempo è inevitabile.

Torna lo stadio del panico e, a ritroso, percorre le tappe precedenti – la rabbia, la ricerca, lo stupore, il vabbeh.

Ma questi ultimi giorni è successo qualcosa, ve l’ho detto. La lamina di ghiaccio trasparente che ricopre la paura di vivere si è incrinata. La ricerca dei perché sta perdendo la sua forza. Ho capito che certe cose accadono e non puoi farci niente. Ho capito che da soli non si gestisce niente e ci vuole una compagnia sufficientemente forte accanto, altrimenti oltre ai problemi tuoi ti ritrovi pure i problemi del vicino, e non sempre il vicino lo puoi scansare. E tu finisci morto. Splat.

Stanotte sono ferma, sospesa. Senza voglia di mettermi a letto, senza interesse a dormire, solo tento di sfuggire alla notte che tante volte mi ha tenuto compagnia abbracciandomi con il suo silenzio eloquente. Penso che mia figlia ha una piccola scritta sulla porta della sua camera. Dice “little things make me happy”. Non sono sicura che la legga. Ma di certo le piccole cose vanno godute, altrimenti muori. Di rancore.

Tra qualche ora tutto ricomincerà, voi leggerete che saranno le 8, o forse le 11, di fronte al caffè, sul bus che vi porta al lavoro, o starete rubando dieci minuti di pausa in ufficio. Io mi sarò alzata, o forse starò riposando. Tornerò a pensare alle mie domande, e poi ad evitarne qualcuna, travolta dal ritmo quotidiano del fai-pensa-produci. Tornerò a pensare alle cose che ho capito.

Sulla storia del senso della vita ci starò ancora lavorando.

Photo credits: The Walk by Burcumbaygut