Ho visto Marta.
È spagnola, credo di aver capito che abbia 33 anni. Ha una massa di capelli semi-ricci e spettinati, con due ciocche color celeste polvere che escono come cornini e, da lontano, sembrano grigie.
Viaggia da sola.
La ho incontrata stamattina per caso. Mi ha fermata lei, con l’espressione di chi pensava non avrebbe avuto aiuto. Mi è anche sembrato che tirasse un sospiro di sollievo.
Il lunedì mattina la mia città è deserta. Fa più o meno lo stesso effetto di un paese impolverato o di una terra abbandonata. Il fenomeno si verifica perché normalmente gli esercizi commerciali non aprono prima delle 10, ma il lunedì in particolare è mattina di riposo, così si riposano anche le strade. Io abito un po’ fuori città. Marta era ferma a un incrocio dalle mie parti, dove di base non c’è niente ad eccezione del traffico. La scena era dunque questa: lei si trovava con un bar ristorante chiuso alle sue spalle, un passaggio a livello alla sua sinistra, un cimitero di fronte, uno stradone sulla destra. Mi guarda con occhioni sgranati. Mi fermo. “Ahh.”, dice. “May I help you?” (leggo il fumetto sulla sua testa “meno male”). Yes, dice lei, vorrei sapere dov’è il centro. Il centro è a destra, dico io, devi andare di là, sì ma io vorrei sapere, ecco, mi stavo chiedendo, cosa c’è intorno a me, dove siamo, dice lei. Siamo nel niente, dico io, qui sei fuori, davanti a te c’è il quartiere ricco. Vengo da lì, dice lei. Ecco allora se vieni da lì, dico io, avrai visto che non c’è niente e non c’è nessuno, solo il dinero, ma sei spagnola per caso? Sì, dice lei.
Questo particolare mi entusiasma. Finalmente posso tornare a parlare spagnolo, dopo quasi due anni che non lo hablo più ma lo escucho soltanto. Ti parlo in spagnolo, dico io, e attacco come una perfetta madrelingua. La scioltezza mi dura un minuto, poi devo arrendermi all’evidenza che non sono più così brava come ero prima. Non che prima fossi chissà che, ma almeno ero in grado di tenere una conversazione. D’altra parte lei è un disastro in inglese, viene fuori. Lei nel suo inglese terribile e io nel mio spagnolo schifoso intessiamo una conversazione. Fortuna che la città è deserta.
Quand’è che mi dice che si chiama Marta? Ecco come avviene il passaggio. Dopo averle spiegato che è meglio che si levi da quell’incrocio e che non ne ricaverà nulla, la accompagno per qualche metro lungo la strada giusta, metro durante il quale lei mi dice che sta vagando random. Non ha l’aspetto di una senzatetto, è solo una in viaggio. Mi distraggo, supero il vicolo per andare a buttare la spazzatura – che, nel frattempo, scarrozzavo fieramente – me ne accorgo, mi congedo e vado indietro. Vado indietro ma comincio a pensare che come sempre nulla accade per caso, che le coincidenze non esistono, che blabla, che la spesa la posso anche fare dopo, che sì, mi aspetta una pila di cose ma io, quasi quasi, seguo la ragazza e la accompagno. La rincorro. “Vuoi che ti accompagni un po’ in giro per la città?”. Mi guarda strana. Forse perché fino a due minuti prima portavo una spazzatura sottobraccio.
Va bene, dice lei. In questo caso, piacere: sono Paola, dico io. “E io sono Marta”. Mi accorgo che Marta capisce ancor meno di ciò che ha dichiarato essere il suo livello di inglese; d’altra parte, le mie palabras sembrano svanire nel nulla di fronte a lei (eppure nella testa le avevo tutte e, quando la saluterò, torneranno di nuovo). Mi atteggio a guida, le racconto ciò che so, le chiedo di lei.
Mi dice che è di Bilbao ma vive sulla montagna.
Che ogni tanto prende e parte.
Che ha già visitato molti posti e vissuto in altri continenti.
Che fa viaggi anche brevi, come questo: una sola settimana.
Mi dice che non viaggia per vedere i luoghi, ma per studiare le abitudini della gente.
Che pensa di poterle carpire anche in pochi giorni.
Che non ama le città grandi.
Che si ferma a dormire dove si sente ispirata.
Che non le interessa visitare musei, chiese e reperti importanti del luogo.
Che cerca punti dove fermarsi, prendere un caffè e osservare le persone.
Che forse lo fa per via della sua deformazione da antropologa. Le chiedo se è antropologa, mi dice di no.
Mi dice che studiava antropologia, ma ha smesso.
Che ha studiato altre due cose, ma ha smesso anche quelle.
Mi dice che interrompe tutto ciò che le piace e non sa perché. E con questa affermazione, io mi spiego perché lei viaggia così. Ma non glielo dico, non è quello che vuole sapere.
Mi dice che preferisce girare tutto da sola, ma dei suoi viaggi ama la possibilità di conoscere gente ogni tanto e di scambiare qualche parola come sta facendo con me.
Mi sembra di aver invaso la sua privacy e smetto di fingermi guida. Le indico un bar dove potrà appagare la sua ricerca in questa città.
È un pezzo di carta stracciata e di colore blu, quello che tira fuori a questo punto della conversazione e che mi mostra. C’è una lista di luoghi da visitare. La mia città è già tra questi. Restano: una zona caratteristica ma poco rappresentativa, un posto famoso. Mi chiede: “se tu fossi me, dove andresti?”. Con questa domanda, capisco.
Capisco di nuovo che nulla accade per caso ma l’incontro di oggi, questa volta, non era per me. Può succedere che io mi imbatta in persone portatrici a loro insaputa di una risposta a un mio dubbio o a una mia difficoltà. Più spesso, invece, sono io a capitare nella vita degli altri. Credevo davvero che Marta fosse lì per me. Piovuta dal cielo su un angolo della strada, messa dall’alto dalla mano di Dio o chi per lui, tipo pupazzetto “toh, a te ti metto qui, che servi in questo punto”. In una città vuota come questa di lunedì mattina, avvolta in un tempo uggioso, decidere di andare a fare la spesa a un orario davvero scemo come le 9:35 non può essere una coincidenza, ma il segno confezionato pronto per darmi la prospettiva di cui ho bisogno in questo momento della mia vita. E poi io e la Spagna siamo più che amiche: abbiamo un passato non passato. Dio o chi per lui ce la ha davvero posata Marta, in quell’angolo. Ma per lei, per il suo crocevia personale. Marta non è tipo da chiedere a qualcun altro “e tu dove andresti al mio posto”. Marta è qualcuno a cui è accaduto qualcosa ed è alla ricerca di se stessa, anche se ancora non lo sa. E chissà se lo saprà. Io ero il suo pupazzetto messo lì. Mi è stato definitivamente chiaro quando mi ha svelato un’ultima frase.
Avrei voluto sedermi con lei e dirle “raccontami”. Ma sentivo che avrebbe voluto restare di nuovo da sola, dopo un po’. Così le ho detto: “Marta, se io fossi in te non andrei in nessuno dei posti di questa lista.” “Perché?” “Perché questo è simile al tuo mondo, mentre quest’altro non ha ciò che cerchi. Vai in questa altra città che ora ti scrivo.” “E perché proprio questa?”, ha chiesto lei. “Perché questa ha la storia diversa. Qua c’è un bombardamento, e c’è l’antico che è rimasto in piedi. C’è la rivalità tra le genti. C’è l’essenza che è diversa dall’apparenza. E c’è il porto. C’è il mare e vale la pena andarci solo per perdersi a guardare il ponte e oltre l’orizzonte. Non credo tornerai mai più qui.” “No, infatti”, ha detto lei. “Allora non perdere l’occasione di tornare a casa con il ricordo di qualcosa che potrai raccontare e che la gente ascolterà.”
Ha annuito, mentre i suoi occhi mi fissavano. “Grazie. Ho solo due giorni, compreso oggi. Due giorni sono pochi. Dove hai detto che è quel bar da cui osservare la gente?”
Buona fortuna, Marta.
Spero di esserti stata di aiuto.