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Questione di tossine

202107210900

Mettersi la sveglia alle 6 per andare a correre alle 6 e mezza di mattina, per molti è una cosa folle.

Pure dal mio punto di vista. Eppure oggi lo ho fatto. Non ho nemmeno dormito granché, l’altra notte. Mi sono svegliata come al solito alle 4, ho cominciato a pensare a cose, dopo le 5 mi sono riaddormentata.

Ci sono volte che alle 5 faccio colazione per disperazione – una roba regolare, con caffè e tutto – e poi mi riaddormento per un altro paio di orette.

Ma non stamattina.

Quando la sveglia è suonata alle 6, avrei pisolato volentieri un altro po’, ma poi ho fatto due calcoli al volo: c’è bel tempo e, dopo che, nel pomeriggio, avrò finito di lavorare, vorrò andare a correre o vorrò prendere il sole? Più probabile prendere il sole, in una nazione – Formaggiolandia – che il sole lo vede principalmente nei dipinti di Van Gogh, e che trascorre i mesi estivi sotto l’acqua.

E corsa alle 6 e mezza sia.

Dunque, c’eravamo: il mio corpo, un uccellino, un piccione, un corvo, un gatto rosso, un gatto nero, e il mio cervello.

L’uccellino non faceva niente.

Il piccione girava in tondo senza motivo e il gatto rosso girava nella direzione opposta, ma chiaramente con passo da caccia – istinti di geolocalizzazione obnubilati.

Il corvo strillava al gatto nero.

Il gatto nero fissava l’alto di un albero dal fondo, studiando le creature nascoste tra i rami.

Il mio cervello registrava il vuoto intorno, il silenzio, il piacere del fare le cose quando è l’alba, il fatto che a Formaggiolandia d’estate alle 6 c’è la luce delle 10, le persone a dormire, i miei passi veloci sull’asfalto, il mio fiato ansimante, due cani che facevano chiasso in un attico con la finestra aperta.

Notava che tutti quegli animali – i gatti, i volatili – non farebbero mai quelle cose con gli umani intorno; l’assenza delle nostre figure li porta ad essere liberi e ad agire seguendo l’istinto.

Sempre il mio cervello registrava che il mio corpo era stato in grado di alzarsi alle 6 solo per andare a correre.

Cioè volere è potere.

Io lo so che questa frase fa scattare una serie di meccanismi di difesa infiniti, ma mettiamola così: nella sua base, il concetto corrisponde al verosimile.

Da quando sono stata male l’anno scorso, ho deciso che rivolevo i miei polmoni indietro, e mi sono impegnata ogni giorno per riaverli. Li ho educati a respirare di nuovo, poco alla volta, man mano ho aumentato la frequenza del passo, e poi della corsa.

Lentamente, ho cominciato a levare le protezioni dal mio corpo – i tremila strati di vestiti, il cappello, le fasce antisudore, le protezioni alle ginocchia.

Le ginocchia hanno smesso di farmi male.

Nei mesi sono caduta, e ho corso lo stesso, tra slogature e sangue. Mi sono messa in testa che il mio benessere veniva prima.

Tutto questo mi ha portato lentamente a cambiare dieta, perdere peso, lasciare andare vecchie abitudini, far pensare a mia madre che il mio nuovo look fosse la conseguenza di un torrido segreto. Ma l’unica verità è che questa perdita di zavorra è stata totale: si è applicata al corpo come alle persone, e si è riflettuta all’esterno.

Potrei dire che sia stata quasi una questione di eliminazione di tossine. E per non dimenticarlo, me lo sono scritto sulla finestra.

Alla questione della zavorra verso le persone, ci sto ancora lavorando. Lasciare andare. Rispettare i miei sentimenti e le mie emozioni, se qualcun altro non lo fa. Validare tutto come parte di una vita, non accettare gaslighting, scaricare le energie di chi non vuole fare un passo per migliorare. Smettere di giustificare ogni singolo “volere è potere non si applica nel mio caso”.

Certo, ci sono circostanze che vanno al di fuori del nostro controllo – prendete le frontiere chiuse per esempio, sono forse parente di Biden, che posso risolvere questa cosa? Ma come prendiamo tutto il resto, quello sta a noi. Le diete, le sveglie, le corse. I sogni, gli obiettivi.

La mia perseveranza nella corsa ha puntato il dito contro me stessa, stamattina, quando mi sono detta: “posso alzarmi alle 6 tutti i giorni perché voglio impegnarmi a migliorare le funzionalità del mio corpo, posso fare la stessa cosa se davvero voglio impegnarmi in un qualsiasi altro progetto. E i risultati arriveranno, qualunque essi siano, se continuo a investirci il mio tempo”.

Ecco, semplice così.

Il rito di passaggio

Si tratta di far uscire le parole.

Si tratta di cominciare a scrivere i pensieri che circolano in testa, i ricordi, i frammenti, le immagini.

Volti, sensazioni, dolore, flash.

Ale, il telefono, il respiro flebile. Un filo di voce mentre respiro piano, e lentamente. Affannata. come se l’anima volesse scivolare via ma una parte restasse agganciata alla gabbia toracica. Quel frammento strappato e filamentoso tiene in vita. ansimando.

“Ale, ho paura”. 

Ogni normale attività, fino al decimo giorno.

Quella febbre che cominciava. Le guance un po’ rosse, che in fondo fanno tanto salute.

Il dubbio. “Sarà meglio sentire il medico, tanto per essere sicuri”.

Il riposo a letto, tanto per essere sicuri, e approfittarne un po’ per riposarsi.

Poi, il declino.

Velocissimamente, dalla terra precipitare verso il basso senza nemmeno accorgersi.

La febbre che sale, poi scende, poi sale di più, e quel dolore al petto, quel dolore, quella morsa mortale, quella stretta che ti brucia l’anima, quel macigno che ti sfonda le costole.

Quegli occhi che bruciano. 

Poca tosse, ti dici, “io non sto come gli altri”, ma non ti rendi conto che tu stai facendo come gli altri: tu sei ‘gli altri’.

Cominci a dormire, una, due, tre ore al mattino, e poi anche al pomeriggio.  

Cominci a tremare; non ti senti più gli arti. Mani e piedi formicolano quando parli, quando cammini, quando ti alzi. 

E’ l’ossigeno che manca.

Ti guardi le labbra.

Le dita.

Le unghie.

Controlli di non essere blu.

Ti accontenti di un leggero mal di stomaco, felice di non avere forti gastriti e vantandoti di non avere mai perso l’olfatto. Per poi scoprire solo sentendo un profumo dalla cucina 30 giorni dopo che, in realtà, lo avevi perso anche tu.

Ancora la febbre, ancora il respiro. Il suono del vento che sibila da dietro a una porta, piazzato dentro ai tuoi polmoni.

Non c’è più una realtà.

Ci sei solo tu, nel silenzio della tua stanza, e nel vuoto del tuo universo.

Fissi le pareti senza nemmeno cercare un’uscita, perché la tua unica uscita è quel filo di aria, che ti ostini a far suonare più forte di come in realtà è, vendendolo come capace di una normale conversazione telefonica.

Tu non ti senti, le persone invece sì. Le persone ti dicono che non stai andando bene.

Qualcuna mente, e ti dice che non sente niente.

Qualcuno ti ascolta, ti ascolta e basta, ti distrae e ti fa parlare dei tuoi sogni, delle tue speranze, ti fa riflettere, mentre tu sei lì, semiseduta a distrarti cercando un perché, cercando di capire perché te.

Non esistono medicine. Non c’è niente per fare scendere la temperatura, niente per calmare il mal di testa, niente per respirare meglio. 

C’è solo l’attesa. E il panico dell’ammalarsi di una malattia che nessuno conosce, e di cui non si conoscono gli effetti nel tempo. Mentre tutti ripetono di scappare e chiudersi in casa, nessuno sa cosa accade a chi è colpito. C’è il vuoto del nulla. Il cosmo sotto ai tuoi piedi. Il punto interrogativo negli occhi della gente. Le domande irrisolte.

Tu e te stesso. Il tuo corpo che combatte senza aiuti.

C’è lo scoramento.

E a un certo punto, c’è un’infinitesimale voglia di mollare. perché sei stanco di stare così male.

Meditazione.

Convincersi che stai bene, ripetersi che stai bene, fino a consumare le parole, fino a terminare il vocabolario, fino alla nausea. Fogli, frasi, suoni, canti, om, “il mio corpo è un tempio, il mio corpo è sano, il mio corpo è in armonia”. Ogni frase mi risuona dentro, si fracassa nel torace. Lo sguardo piatto e sbarrato senza sorriso impedisce alle lacrime di parlare e intontisce il cervello fino all’ossessione.

Fumi di idrossiclorochina dall’America risalgono lentamente offuscando i pensieri. Il farmaco è lontano. La guarigione pure. Ma il calore di alcune persone no.

E allora capisci.

Il senso di tutto. 

Di quella esperienza, di questa vita, di quelle parole, di quelle telefonate.

Capisci come tutto segua un suo percorso. 

Sono passati mesi e il ricordo del dolore fisico ogni tanto è ancora vivo; lo shock è più acuto; la guarigione ancora un po’ lontana; ma la febbre rallentata; il respiro migliorato; il cuore più aperto; lo sguardo più chiaro; la visione più netta; la vita cambiata. Il percorso di una vita è alla fine, mentre una nuova ha inizio.