canali di utrecht in una giornata di sole

Vado a vivere in Olanda

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Lo so, sono pessima. Sono inconstante nello scrivere, non esattamente il comportamento che ci si aspetterebbe da una persona che gestisce un blog. E ora me ne esco con un ‘vado a vivere in olanda’.

Ma il fatto è che ci sono sul serio.

Non so come, non so quando, ma è accaduto. Ti ritrovi dalla sera alla mattina che hai preso decisioni che sai che cambieranno la tua vita per sempre, anche se non sai in quale direzione questo cambiamento avverrà.

Così, da giugno, sono approdata in terra straniera. L’Olanda, che poi in realtà si chiama Paesi Bassi perché Olanda è solo una delle tante regioni, terra fiabesca di profughi (e colonizzatori, sfruttatori, schiavisti, sì ok) che accoglie chiunque chieda asilo e voglia fuggire dalla propria vita. L’Olanda, con il re che si prende cura dei suoi sudditi, li ama, li veste, li pettina, li manda a produrre.

L’Olanda, con la sua lingua che sembra un inglese sporcato di fango, un porto ricco di british people, accenti tedeschi e parole francesi. Una mega fusion di stili e correnti di pensiero, tutte rispettose l’una dell’altra. Vuoi fare la drag queen? Accomodati. Vuoi essere un numero? Fai pure, ci limiteremo a schedarti all’anagrafe. Vuoi sperimentare? Entra in uno dei nostri negozi. Vuoi essere uguale alla massa? Entra in uno dei negozi del centro.

L’Olanda, la cucina del mondo fatta dispensa di un ristorante a cinque stelle. Cibo compreso, ovviamente, perfino al supermercato. Dal pronto thai alla schifosa “celebre pasta italiana con mascarpone sauce” (ma dove), non manca la confezione di caffè a meno di 2 euro. Roba che da noi a quella cifra lo trovi solo al discount. E, se proprio senti la mancanza della versione italiana, c’è il barattolo di Lavazza che costa meno che alla nostra Coop! Che qualcuno avvisi il tizio delle pubblicità che la notte si alza e va a lavorare per offrire un servizio migliore agli italiani.

L’Olanda, patria delle tolleranze. Vuole bene a tutti. A tutte le differenze. A tutte le correnti di pensiero. Non alza la voce, non spinge quando fa la fila, non polemizza sull’aria fritta. Non si lima le unghie negli uffici comunali e non vive del mito della mela americana. Per un italiano tutto questo è assai strano e anche un po’ utopistico, tant’è che di connazionali ne trovi parecchi, che vengono a verificare quanto ci sia di vero, ma li riconosci subito: si aggirano in gruppo, sono griffati, schiamazzano a decibel improponibili e stanno uscendo dai coffee shops.

E io italiana che non schiamazzo, cosa ci faccio qui?

Io sono qui per ricominciare. Ancora una volta. Atterrare con il lanciafiamme la mia vita e ricostruire continuamente è uno sport che pratico con metodo e regolarità. Senza voltarmi indietro. Se fai, fai. Non puoi permetterti di far esistere la mancanza di ciò che avevi, semmai esiste l’incertezza del domani. Ma quella ce l’hanno tutti. Quindi, perché non provare?

Ci sentiamo tra un po’; prometto che cercherò di essere più costante. E, soprattutto, prometto che cercherò di essere più obiettiva possibile nelle mie cronache. Non dico “più giornalistica possibile” perché sappiamo che la suddetta categoria è una delle meno imparziali del mondo…

Ah: al momento in cui sto scrivendo, mi trovo in giardino e ci sono 30 gradi. No, così: l’estate esiste anche qui. Ciao a tutti i disfattisti.

Paola Ragnoli - The Dots Connection - intervista Claudio Lauria - 2017 (5)

Viaggiatori del mondo: spunti e punti di osservazione

L’attore è uno strano mestiere.

Puoi trovarti davanti di tutto: comici, burloni, gente con voce impostata che nemmeno Carmelo Bene; saltimbanchi, facce da psicodrammoni, facce da soap-operas, talenti sprecati e montati incapaci.

L’attore è uno che mi chiedo sempre “ma come fai a viverci? Pensa quanto è bravo a simulare le bugie in casa – ‘amore, quanto mi ami?’ ‘tanto amore mio, tanto più del mio cuore’. Potrei mai credere a un fidanzato che recita di mestiere?”

Forse questa è una domanda buona per Vanina, la fidanzata di Claudio.

Claudio è Claudio Lauria, attore italiano in Argentina, con all’attivo cose varie e sparse in tv e non, in Italia e non, che – al momento in cui scrivo – è in giro per il mondo a presentare il suo spettacolo Shakespeare 401.

Il momento in cui scrivo è luglio 2017.

Come sono arrivata a Claudio?

Un giorno di gennaio, Claudio si presenta in un gruppo di italiani residenti in Olanda, annunciando il suo arrivo a giugno.

Leggo il messaggio.

Guardo la foto.

Apprendo che è di Roma.

Fatta.

“Quando arriva è mio, lo intervisto.”

Gli scrivo.

È un bellissimo e caldo tardo pomeriggio di giugno. Nella sede olandese del Patronato Acli, i raggi del sole filtrano attraverso le grandi vetrate della sala ai piani alti. Abbiamo 50 minuti a disposizione, prima che il mio ospite cominci a prepararsi per lo spettacolo.

La mitica Vanina (già mi sta simpatica, ha tutta la mia solidarietà femminile) è seduta accanto a noi.

Ci fa un po’ di foto.

Ora dovrei farle la domanda su com’è essere fidanzate ad un attore. Mentre ci penso, Claudio esordisce: “Che bella la vita! Dai… ready!”

 

 

 

 

 

 

Cos’è che hai detto? “Che bella la vita”? Perché?

Perché già parlare con un sole così ti dà voglia di vivere! E poi io sto vivendo un piccolo sogno: avere il piacere di fare uno spettacolo totalmente scritto da me, ideato da me, regia e recitazione mia, in Argentina e in altre nazioni… ora sono qui, tra un’ora e mezzo vado in scena, il pubblico sta arrivando, e ci sei tu che mi aspetti per l’intervista!

Grazie! Dai, Dimmi qualcosa di più di Shakespeare 401.

È una pièce teatrale in tre lingue: italiano, inglese e spagnolo. Ho scritto tutti i testi. Parlo di Otello, di Romeo e Giulietta, cerco di raccontare Shakespeare e di portare il teatro alla mia maniera. Mi piace il genere brillante, attraverso il quale parlare di temi seri e importanti. Sono partito da Buenos Aires e lo sto portando dal Perù a New York, all’Europa, all’Asia, per chiudere con l’Australia.

Dai quanto tempo fai l’attore?

Ho cominciato in Italia tanti anni fa, quando ero giovanissimo. Ho fatto molta gavetta; non ho frequentato scuole, sono autodidatta.

Quando hai lasciato Roma?

Nel 2002, avevo 28 anni.

Tu hai viaggiato un sacco.

Per 12 anni.

In quali paesi hai vissuto?

Inghilterra, Palestina, Israele, Egitto, Giordania, Olanda e Brasile.

Palestina e Israele perché?
Sono andato come volontario. All’epoca in cui mi sono avvicinato a questa idea, vivevo a Londra, avevo un lavoro normale, una vita dal ritmo tipico inglese. Ho conosciuto un gruppo di persone in partenza per fare i volontari in Palestina. Mi hanno incuriosito. Mi sono avvicinato a quel mondo facendo volontariato nelle carceri inglesi. Alla fine ho ricontattato quel gruppo.

L’Argentina come è arrivata?

È arrivata tra l’Olanda e il Brasile. È stata la prima nazione che ho visitato una volta arrivato in Sud America; mi è subito piaciuta e ho deciso di fermarmi lì per un po’. Ma volevo ancora vedere il Brasile…

E cosa hai fatto?

Il Brasile era il mio mito, capisci? Il calcio degli anni ‘80, i bambini con il pallone sulla spiaggia… sono partito e ci sono rimasto per un anno.

Fammi capire. Il Brasile era il tuo mito ma vivi in Argentina. Per caso, ti ha deluso?

…Un pochini-ni-ni-ni-no sì…! Buenos Aires è meglio di Rio, per me. In Argentina ho trovato persone aperte, socievoli, con un valore dell’amicizia molto forte. In Brasile questo non è mai successo, non c’è lo stesso sentimento.

Se dovessi fare un confronto tra i vari paesi in cui hai vissuto e lavorato, pensi che potremmo identificare a grandi linee le persone a seconda del luogo d’origine? Cioè, che analisi sociale fai dei paesi che hai attraversato?

È bella questa domanda, perché io mi sono sempre divertito a farmela da solo. Ti posso dire questo. Dove c’è stato il cattolicesimo c’è più indisciplina, meno rigore, meno rispetto per le regole in generale. Al Nord Europa innegabilmente le persone sono più rispettose: si rispettano orari, promesse, regole. A livello di amicizie, però, è meno facile che la gente ti apra le porte di casa. Mentre il Medio Oriente è l’apoteosi dei sentimenti. Il popolo palestinese è il più affettuoso che io abbia conosciuto, forse pure troppo, al punto che tu non sei più libero di dire no. Per esempio, quando lavoravo lì e dovevo tornare a casa, una strada di 50 metri la percorrevo in 8 ore, e non è come modo di dire, intendo 8 ore sul serio, perché ogni 10 metri c’era una casa dove qualcuno ti obbligava a prendere il tè! Non potevi rifiutare. L’Israele è simile alla Palestina, ma la cosa è un po’ meno pressante.

foto intervista Paola Ragnoli Claudio Lauria

 

 

 

 

 

 

Senti Claudio, perché viaggi tanto?

Viaggiavo tanto.

Naa, lo stai facendo ancora, hai solo trovato una scusa professionale…

Allora diciamo che prima giravo per vivere la mia gioventù.

Cosa cercavi?

Cercavo di vivere i sogni che avevo, come andare a vedere i bambini giocare a pallone sulla spiaggia brasiliana. O andare a vedere l’Australia… quest’anno lo faccio, con lo spettacolo! In Brasile, però, mi sono reso conto che tutto ciò che stavo cercando da tempo, in realtà, lo avevo trovato: era in Argentina. Per questo sono rientrato a Buenos Aires e ci sono rimasto la bellezza di 7 anni, senza mai muovermi dalla città. Penso di aver avuto un rifiuto del viaggio, giunto a quel punto della vita. Ma poi c’è anche da dire che arriva un’età biologica in cui le esigenze sono diverse, e gli ultimi quattro anni la priorità è diventata il lavoro. Tre anni fa ho conosciuto Vanina. Viviamo insieme e lei ogni tanto mi segue nei tour, come sta facendo in alcune date di Shakespeare 401.

Come fai a integrarti in tutte le culture che affronti ogni volta, c’è un segreto?

Evitare italiani sempre! Battute a parte… Non ho nulla contro gli italiani, intendiamoci. Intendo dire che cercare di evitare connazionali aiuta ad integrarsi meglio o, almeno, prima.

Ma non ti manca casa? Anzi: qual è casa?

Eh… casa… Buenos Aires. Ma sento anche molta attrazione per New York. Ogni volta che ci vado, c’è quel richiamo…

La città che ti ha stimolato di più a livello creativo e culturale qual è?

Rischio di essere ripetitivo, ma… Buenos Aires! C’è grande vita culturale, lì. Loro preferiscono andare a teatro piuttosto che comprarsi un pantalone. Anche Londra e New York sono molto fervide.

Amsterdam no? Dicono tutti che sia molto ricca.

Davvero?

Almeno in ambito europeo, viene vista come ricca di stimoli.

A me non ha mai stimolato quanto Londra, per esempio. Ma è una mia opinione personale.

Ci mancherebbe, tutto quello che diciamo è sempre filtrato da un’opinione personale. Sono solo curiosa di sapere quali posti trovi stimolanti per la creatività, tu che ne hai visti tanti.

Trovo molto attive Milano, Berlino e Parigi. Ho parlato con diversi attori ad Amsterdam e lì il teatro non è poi così sviluppato, da parte degli attori ma anche da parte del pubblico, ad eccezione del musical. Il teatro sembra quasi una roba da amatori.

Perché fai questo mestiere, Claudio? Cosa vuoi comunicare?

Voglio condividere con gli altri la mia visione della vita e della politica. Per esempio: io non condivido l’idea che il politico sia visto quasi come un dio, un referente unico non criticabile che considera il popolo di sua appartenenza, e il popolo di rimando smette di notare le mancanze e si sofferma solo sulle poche cose che vengono fatte, come se non avesse il diritto di chiedere.

Quindi il tuo è un messaggio sociale?

Sì, assolutamente.

Comunicheresti la stessa cosa anche se non facessi l’attore?

Sì, tutto quello che ti sto dicendo è ciò che faccio e che dico anche quando sono giù dal palco.

Ma tu sei così come tutti ti vedono, o ci sono lati di te che non vengono fuori?

Beh, ovviamente c’è una parte di me che non metto in mostra. In generale, io sono ciò che faccio vedere, sono spontaneo. Alcune parti non escono non perché io le voglia nascondere: semplicemente, fa male a me tirarle fuori. Ad esempio, non mi piace essere uno che si lamenta. Se mi è accaduta una vicenda spiacevole e poco dopo ho una serata con amici, non vado a dire cosa mi è successo… credo che non dobbiamo ammorbarci a vicenda. Poi torno a casa e parlo con la mia compagna. C’è momento e momento per condividere le cose.

Come comunichi ciò che fai?

Scrivo su Facebook e sul mio blog. Al momento, sto pubblicando anche il resoconto del mio spettacolo itinerante.

Hai un sito?

Sì, ma preferisco Facebook. Mi permette di connettermi con la gente.

Claudio, ci rivedremo?
Lo spero!

Magari ti vedrò in una telenovela argentina.

Quisaz…

L’attore è forse uno dei mestieri che si presta meglio a dare un contorno alla comunicazione.

Unisco questo ai viaggi e alle lingue straniere, e ho il prototipo perfetto di intervistato.

Io che mi occupo di comunicazione, e che scrivo di viaggio in larghezza, che ho The Dots da una parte e I Viaggi Della Druida all’altra, trovo in Claudio e nella sua vita la combo perfetta per analisi e domande.

Certo, mi resta un dubbio: come si vive tutti i giorni con un attore?
Uhm.

Devo farmi dare da Claudio il numero di Vanina.

(Video promozionale realizzato da Claudio per la tv argentina. Ragazzi, per 30 secondi mi sono sentita una diva.)

 

Glasses_by_Basistka

Falsi miti e grandi verità

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Facebook è vita vera. Fatevene una ragione.

‘Quelli Che’ è l’incipit più razzista che si possa produrre. Ci ghettizziamo da soli e poi puntiamo il dito contro qualche altro gruppo.

Il delirio di onnipotenza che hai a 20 anni è frutto dell’ormone, il delirio di onnipotenza che hai a 30 anni è frutto della coglionaggine.

I fanatici della privacy si sono iscritti ai gruppi ‘Sei di’. Non devo aggiungere altro.

Non temete Facebook, temete Google: è la vera grande cesta degli scheletri nell’armadio.

Ci sono più fotografi che idraulici.

Ci sono più community managers che panni sporchi.

Ci sono più corsi di social media che corsi di italiano e galateo (ed è un peccato).

La povertà porta alla follia.

Le riunioni sono la tomba del lavoro.

Siamo tutti parte di un grande formicaio che produce per il capo. Tanto vale lavorare per un formicaio che ci piace.

Non è vero che una bella scopata risolve tutti i problemi di acidità di stomaco. Posso fare una bella scopata ma comunque con la persona sbagliata.

Per gli uomini: se continuate ad esaltare le fotomodelle e le loro cosce senza cellulite, noi cominceremo a svelare pubblicamente le vostre dimensioni. Meglio le cosce grandi che il pistillo piccolo.

Non è piccolo? Allora è storto.

Non è né piccolo né storto? Allora è gay.

Non è nemmeno gay? E’ di proprietà di uno stronzo. Ecco, ha la forma di uno stronzo. Che ne dite, vanno bene ora le nostre cosce?

PS. Non è vero che non importa la grandezza ma importa come lo usi. Avoja.

Per le donne: un atteggiamento troieggiante è inversamente proporzionale alla frase ‘sei come tutti gli altri, pensi solo a scopare’ e direttamente proporzionale alla crescita della fanpage ‘Io non sono cagna, è che mi disegnano così’.

Non esiste la fanpage appena citata. La ho inventata. Per ora.

Le persone si intromettono nel lavoro degli altri spiegando loro cosa e come fare perché non sanno fare bene il loro.

Se vuoi, puoi. A patto che tu sappia cosa sai fare e cosa stai facendo.

Solo lo spirito di umanità ci salverà.

Alla fine, i piatti sporchi nel lavandino resteranno alla donna 9 volte su 10.

La birra non ingrassa.

La banana ti rende stitico solo se tenti di mangiarla dal lato sbagliato del tuo corpo.

Se fai la fila ed arrivi allo sportello che non sei pronto, meriti che i fogli si inceneriscano nelle tue mani come fa ciclicamente la Fenice.

Le groupies esistevano già al tempo degli antichi romani: al termine delle battaglie, si infrattavano con i gladiatori nell’anello più basso del Colosseo.

Pippo Baudo è immortale.

L’Italia rincorre i mestieri tecnologici ma è patria delle muse. Gli italiani non usano il progresso per portare il paese allo sviluppo, e non usano lo sviluppo per la collettività. Noi sappiamo fare arte, musica, cucina, turismo, storia, ricerca scientifica e perfino il petrolio. Non dimentichiamolo, perché disponiamo di un patrimonio che ci viene invidiato da tutto il mondo.

photo credits: Basistka, Glasses

Bear__s_Bar_by_Shirekeeper

Il bar del Nord

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Amo il rumore dei bar. Il tintinnio continuo e scintillante dei piattini e delle tazzine, quel suono di vapore per riscaldare il latte e montare la schiuma. Amo il frastuono del vociare delle persone: chi seduto ad un tavolino, chi di corsa sempre in piedi, chi impegnato a corteggiare la scollatura della cassiera. Chi impegnata a farsi corteggiare da un barista con l’aria vagamente somigliante ad un attore americano. Amo l’aria un po’ retrò che certi Café sanno dare. I profumi di broches calde miste a miele e frutti di bosco. Quegli odori che ti pervadono la stanza, se abiti sopra ad un forno.

Amo l’aria malinconica e attonita che respirano certe ragazze quando guardano fisse fuori dal vetro, sedute a girare a vuoto un cucchiaino sfogliano annoiatamente le pagine di un libro, con l’occhio di chi ha il peso della vita tutto sulle sue spalle. Affossate come una zolletta di zucchero tuffata in una bevanda.

Amo l’uomo distinto che parla da solo con se stesso e si prende il suo tempo dal tablet, limitandosi ad annotare qualche parola su un taccuino. Usa una penna. Forse una stilo.

Amo la sottile colonna sonora da cantante di pianobar con repertorio distinto, che lascia spazio ai pensieri e stende un tappeto rosso anche a queste parole. Amo la fisarmonica francese che accompagna i gesti del petit dejeuner, i tubi di metallo a vista color americano oltreoceano, i mattoncini country in colore naturale o laccati di bianco, il bianco provenzale di luce tende e mazzolini di lavanda, il legno liberty intagliato nelle cornici degli specchi. Amo il silenzio del bar delle 6 di mattina, la sua stanchezza delle otto di sera, e la sua vita cambiapelle di mezzanotte. Amo l’atmosfera esotica da spiaggia, o quella sperduta nel punto più lontano della terra, nel punto più lontano di noi. La dimensione interiore di un tempo dilatato, regalato dall’amica di fronte, oppure omaggio per noi stessi. Come stare ad osservare l’immenso, dal nulla. Amo le porcellane, la ceramica, il polistirolo compresso tutto da mordicchiare. I panini farciti e la gara a capire cosa c’è dentro. I biscotti, le fette di torta. La macchina del cioccolato caldo. L’aperitivo. L’american coffee. Il gadget alla cassa e le miriadi di Baci. Amo i caffè. I Café.

Bear’s Bar. Photo by Shirekeeper

madeleine ragsdale - woman standing on pavement

C’è chi resta.

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Chi resta può dimenticare più in fretta perché è già nella sua casa.

Chi parte ha invece il tempo di pensare e di restare da solo.

Niente compagnia che aiuta.

Differenze dei punti di vista.

in viaggio tra Firenze e Roma.

Andrew Buchanan

Terremoto

– Ore 19:16 –

C’è un sole caldo dalle parti di Bologna. O almeno questo è quello che appare dal finestrino del mio treno. Finalmente stiamo uscendo dai tunnel di gallerie che separano la bella Firenze dalla devastata Emilia. I raggi mi colpiscono negli occhi. “Sembra che faccia estate”, potrebbero dire i pensieri dei miei vicini. “Chissà se qualcuno stacca gli occhi dallo schermo del computer o del cellulare”, dicono invece i miei.

A guardare le dolci colline illuminate e rifrangenti, si fa fatica a pensare che solo qualche ora fa ci sia stata l’ennesima, forte scossa di terremoto.

– Ore 19:27 –
Siamo fermi da 5 interminabili minuti all’ingresso della stazione di Bologna, quando finalmente ricominciamo a muoverci. Il piccolo stop è sufficiente per far scattare il clic nei passeggeri, cominciano a parlare del tu dov’eri stamattina alle nove, mia mamma l’ha sentita, speriamo che smetta. Si pensa sempre alla mamma, in certi casi. In certi casi, il tuo primo pensiero corre a ciò che hai di più importante nella vita e che davvero non vorresti perdere, e solitamente tutto questo si traduce negli affetti, non ho mai sentito nessuno pensare alla banca o alla posta. Ragioni seriamente in termini di ‘come se dovessi morire’, quando davvero la sfiori, quella normalità di vita: la normalità della morte, che nessuno vuole mai accettare.

– Ore 19:34 –
Non ho capito se siamo in ritardo. Mi guardo intorno. Cerco le tracce di qualcosa. Mi aspetto un solco profondo, ferite evidenti, sono alla ricerca di un particolare che mi possa far dire “ecco, l’ho visto”. Ma non vedo nulla. Magari alcune pietre disossate, ma chissà se erano già lì da prima. Chissà se sono come le rughe dei volti che fisso, questa gente che percorre le banchine e legge i cartelloni delle partenze, che oggi è stata smottata e ribaltata ed ora, dopo essere andata a mille all’interno del cuore, sta camminando come se nulla fosse, a normale velocità. Quella che non ha il mio treno. Siamo appena usciti da Bologna, e già inchiodiamo di botto.

– Ore 19:59 –
E alle diciannoveecinquantanove tocchiamo i trecento chilometri orari.

– Ore 20:05 –
Sono partita per raggiungere il mio amore. Ho approfittato di una vacanza e ho prenotato il treno un mese fa. Poi uno dice che non crede al destino. Un mese fa, mi ero chiesta se partire lunedì; ci avevo pensato per ben cinque minuti ed alla fine avevo optato per il martedì. Ieri sera, con qualche ora di anticipo sull’effetto sorpresa, ho comunicato al mio amore che lo avrei raggiunto, e stamattina, nel suo consueto messaggio di buongiorno, lui ci ha inserito un “Luca si è svegliato con una scossa”.
Mi sarebbe bastato il “buon buongiorno, amor mio”.
Non era per niente l’sms romantico che immaginavo per la giornata sorpresa, e sono rimasta tutto il giorno come una scema ad avere paura.
Ho pensato a scenari apocalittici.
Ho pensato a mia figlia, lontana e da sola nel centro Italia.
Ho pensato che era veramente da stupidi ed incoscienti viaggiare proprio oggi per il Nord.
Ho pensato che siamo impotenti, che non abbiamo nulla da dire, che soprattutto non abbiamo nessun diritto di dire; nessun diritto di ragionare per se stessi, quando molto è crollato e tu hai la sedia al riparo.
Ho pensato che non potrei sopportare di perdere mia figlia, ed ho pensato che volevo stare nelle braccia del mio amore. Come se lui mi mettesse al sicuro.
E ho preso questo treno.
Chissà se stanotte ci saranno altre scosse, ma tra poco più di mezz’ora arrivo.

Porto dieci minuti di ritardo.

30 Maggio 2012

Amnesty_International_-_It_Happens_When_Nobody_Is_Watching

Il silenzio delle donne

Questa era una campagna affissioni di Amnesty International di qualche anno fa. La telecamera che vedete era vera, registrava i movimenti delle persone e modificava le immagini.

C’è stato un momento storico in cui siamo stati capaci di grandi battaglie. Quando il mondo non ci piaceva, ci siamo alzati e abbiamo urlato a gran voce di essere ascoltati. Lo abbiamo fatto in Italia, lo abbiamo fatto all’estero. Abbiamo avuto il supporto dei giornalisti, delle telecamere, dei politici, delle classi dirigenti.
Ci siamo scandalizzati, indignati, abbiamo pianto, reagito, camminato, manifestato, scioperato.
Ci siamo crocifissi in nome dell’uguaglianza dei diritti e delle dignità di vivere ed essere liberi. Abbiamo fatto il ’68, abbiamo combattuto per il divorzio, per l’aborto, per la democrazia. Abbiamo chiesto di essere governati nel rispetto del voto che abbiamo dato.

Abbiamo chiesto parità dei sessi. Che è stata interpretata malissimo da certe donne, e malissimo da certi uomini. L’uguaglianza che abbiamo invocato si è trasformata in un atteggiamento aggressivo -definito, malamente, ‘femminista’- da parte di donne che hanno giocato a fare gli uomini ed a mettersi i pantaloni, cambiando le gonne in tailleurs restrittivi.
Non mi pare che abbiamo ottenuto molto.

La parità non è questa.

La parità dovrebbe essere data dal fatto che possiamo fare il chirurgo, il magistrato, il direttore di giornale, il responsabile di partito, il capitano d’industria.

La parità non è cucinare stirare e lavare i piatti in due, portare la giacca in due, fare a pugni in due.

La parità dovrebbe essere data dalla libertà di uscire e girare per le strade senza paura.

Ecco, io non mi sento affatto libera.

Io ho paura di uscire e di far uscire mia figlia, e come me molte altre donne, che non vogliono rientrare a casa la notte da sole, e a volte non vogliono girare nemmeno di giorno da sole.

Vi faccio un piccolo elenco di casi umani recenti, estratto scelto che vi invito a leggere, perché sarà il caso che vediate in un colpo solo che cosa sta accadendo:

– il 30 novembre 2011 un uomo uccide suo figlio di 3 anni, mettendolo in lavatrice per punirlo perché il bambino si è comportato male all’asilo;

– il 17 gennaio 2012 un uomo uccide la moglie di 33 anni facendo passare la morte della donna come un tentativo di rapina finito male, dopo che –complici i suoi amici- tenta l’occultamento di cadavere ma viene scoperto dai vicini di casa;

– sempre il 17 gennaio una ragazza di 24 anni viene rapita, stuprata e poi arsa viva (non si sa mai, magari le veniva in mente di parlare);

– il 4 febbraio una donna di 50 anni è violentata a casa sua, durante una rapina;

– il 12 febbraio una ragazza di 20 anni è stuprata e lasciata nella neve – riporterà 48 punti di sutura, le ricostruiranno anche l’apparato digerente, l’avvocato difensore del violentatore dichiarerà che si è trattato di un rapporto amoroso consensuale;

– il 29 febbraio un uomo viene arrestato per aver massacrato di botte una donna di 53 anni – ancora sconosciuti i motivi;

– l’11 marzo un uomo ubriaco suona in una casa di sconosciuti, picchia il giovane che gli apre la porta, entra e violenta la donna di 36 anni che sta dormendo all’interno;

– il 14 marzo un uomo di 77 anni colpisce la moglie a martellate, staccandole una parte di orecchio;

– ancora il 14 marzo una ragazza è violentata al distributore automatico delle sigarette, di fronte agli occhi della sua amica che invece riesce a scappare e a dare l’allarme;

– sempre il 14 marzo viene resa pubblica la notizia di una ragazzina di 13 anni costretta ad avere rapporti sessuali con 2 quattordicenni, alla presenza di altri 3 tredicenni;

– il 16 marzo una donna di 47 anni è stuprata in un parco, di mattina;

– sempre il 16 marzo una ragazza di 22 anni viene presa a martellate dal suo convivente, il quale, già che c’è, uccide anche il bambino di lei, di anni 2;

– il 18 marzo una ragazza di 18 anni è prima picchiata e poi gettata dal ponte dal suo ex fidanzato, che proprio non si rassegnava alla fine della loro storia d’amore.

Basta così.

Non so voi ma io non riesco più ad andare avanti con l’elenco, né a rileggerlo, né a tollerarlo.

Per questo ne scrivo qui, una volta per tutte, in giorni in cui al telegiornale non ve lo stanno dicendo, affinché ognuno faccia ciò che è nel proprio potere e nella propria coscienza.

Non si tratta di stranieri o italiani, non si tratta di maschi contro femmine. È indubbio che ci sono donne violente, così come però è indubbio che gli uomini lo sono in misura maggiore.

Ne scrivo qui e mi appello a voi che leggete, perché è intollerabile dire che siamo in un mondo difficile, che queste cose ci sono sempre state e che noi non possiamo fare nulla. Non è vero che non possiamo fare nulla.

Possiamo alzarci e indignarci seriamente. Possiamo chiedere ai nostri compagni di aiutarci, di schierarsi con noi, di scendere in piazza, firmare un foglio, fare protesta fuori dal Parlamento.
Possiamo chiedere ai politici di prendersi in carico queste lotte così come si sono fatti carico di votare la legge sull’aborto.

Possiamo pretendere il rispetto della dignità umana, perché dopo una violenza, sia essa psicologica o fisica, la mente di una donna si appanna e le viene strappata ogni voglia di sorridere.

Ma anche il silenzio gliela leva. Il silenzio, le teste abbassate, la mancata condivisione di notizie come quelle riportate – non ce ne facciamo nulla della vostra solidarietà privata, se non la sbandierate pubblicamente.

Possiamo chiedere alle donne che hanno notorietà e potere in questo paese di dire qualcosa, qualcosa che non sia SOLO ‘basta alle vallette donne oggetto in tv’, ma qualcosa che sia ANCHE  basta alle donne oggetto.

Possiamo chiedere a tutti i creativi, i comunicatori, i pubblicitari, di cambiare linguaggio di vendita e smettere di incitare continuamente ai doppi sensi. Il consumatore non è certo scemo, ma se non ricordo male la pubblicità dovrebbe fare leva sui bisogni o, in alternativa, crearli.
Perfino i comici, una volta, facevano ridere senza volgarità. Oggi pare che, senza parolacce, non si possa andare in onda.

E quindi: che ognuno faccia la sua parte, per favore. Penso che questo possiamo chiederlo.

Perché le donne sono anche le vostre, i bambini sono anche i vostri.
Se vi indignate per cinque minuti e poi tornate al vostro silenzio, non siete diversi da chi ha tentato di stuprarci ieri e tenterà di farlo domani.

E statisticamente, in qualsiasi forma, prima o poi potrebbe toccare a ognuno di voi.

Suad Kamardeen

Il binario 5

(201203120830)

Al binario 5, c’era una storia.

Dico c’era, perché diverse cose sono cambiate, da allora.

E’ passato molto tempo da quello scatto; la foto me la fece una ragazza, all’epoca mia grandissima amica. E’ cambiato anche quello.

Era l’inizio di una mattina senza troppo freddo, non ricordo nemmeno il periodo esatto. Ho una vaga ombra solo dello stato d’animo che mi accompagnava. A dispetto della risata che si vede, ero tristissima. Oserei dire quasi morta dentro, se non fosse che non si può essere morti se si stanno provando dei sentimenti, e ‘tristissima’ è uno di questi.

Però una parte di me era del tutto spenta, e l’altra stava andando a male. Avevo deciso di consumarmi per un amore del tutto sbagliato, o farei meglio a dire per ciò che credevo essere un amore, perché quando le cose non sono giuste, e tu sai che non sono giuste, non dovresti parlare d’amore; piuttosto, di desiderio di riscatto, di bisogno di non dichiarare un fallimento, di voglia di rivincita su te stesso e sul destino.

Ma non è mai colpa del destino. Quello fa la strada che fa.

Non voglio aprire un capitolo sul vero significato degli amori sbagliati. Come in tutte le storie, ci sono eccezioni, e non è adesso la sede per questo discorso. La sede di stasera è il binario 6, quello dove attendevo il mio treno, e nella foto ci è uscito il binario 5.

Non sarà stato un caso. Un altro binario, diverso dal treno che stavo aspettando. Un’altra strada.

Se potessimo aprire gli occhi in tempo per risparmiarci tante pene e sofferenze.. ma sono convinta che ogni cosa accada sempre al suo giusto tempo. Se non lasciamo cadere qualcosa, più che probabilmente non siamo pronti a farlo. Non ci abbiamo preso sufficienti batoste, o non abbiamo abbastanza autostima di noi stessi, anche questa è una possibile interpretazione. Le storie sono piene di possibili interpretazioni. L’angolo dalle quali le osserviamo ci permette solo di vederne una o due sfumature, ma dobbiamo sempre fare i conti con l’essenza che si trova dietro ciò che appare.

Per questo, penso che dobbiamo imparare ad ascoltare. Gli altri, le parole, le azioni -perché sì, si ascoltano anche le azioni-, il nostro cuore, e questo lo dico sempre, per chi mi legge abitualmente non è una novità.

In fondo, noi lo sappiamo se stiamo commettendo una leggerezza oppure no; se una persona ci sta facendo soffrire, o se invece ci fa del bene. Se ci andiamo d’accordo e c’è intesa, o se siamo solo preoccupati dei giudizi del mondo e della paura del poi. Ma con la paura del poi non si va da nessuna parte; a volte nemmeno sul binario sbagliato.

No, con la paura del poi non si parte proprio.

A renderci ciechi ci pensa il terrore verso il punto finale, o verso quello che crediamo essere il punto finale. Che forse è: la proiezione delle nostre paure . la mancanza di coraggio . l’incapacità di assumersi responsabilità . il desiderio di restare Peter Pan . il pensiero dell’altro.

Ah, questo è uno degli errori più comuni.

Ci sostituiamo al pensiero dell’altro.

Stabiliamo una conclusione sulla base dei film mentali che ci facciamo.

E troppo spesso non è così.

E’ quando smettiamo di capirlo che, di colpo, la nostra vita migliora.

Io ho cambiato binario. Il 5 è diventato somma e sottrazione insieme degli errori commessi e del percorso da prendere, quello che vedevo ma che negavo a me stessa.

Ci sarebbe un mondo di cui parlare, da quel tempo ad oggi. Un mondo fatto di intrecci e storie che nemmeno vi immaginate. Un mondo ai limiti del surreale, che da solo varrebbe la trama di un libro, e che non è detto si sia ancora concluso.

Ma non è il finale quello che conta.

Quello che conta, non è dove pensi di arrivare, ma cosa provi mentre vai.

Una volta assunto questo, la parte migliore viene da sé.

palco vasco rossi

Incidente con morto per il palco della Pausini

– Il silenzio di Facebook –

Partiamo dalla foto che vedete sopra.

E’ un particolare di un palco di Vasco. Imponente, non trovate?

Da stamattina ho scritto e cancellato almeno tre status nella mia pagina personale di facebook. Guardo e riguardo la foto di Matteo, leggo i commenti che mi vengono scritti, noto la scarsa partecipazione della comunità e mi dico che non trovo le parole adatte.

Mentre scrivo, ci sono un paio di feriti in ospedale, di cui uno in gravi condizioni.

Dove siamo: a Reggio Calabria, durante il montaggio del palco del concerto di Laura Pausini.

La foto del palco di Vasco la ho messa solo per darvi un’immagine fissa di dove ci si arrampichi quando si lavora a un concerto.

Matteo era un rigger. Vi spiego cosa fa un rigger: è il tizio che si arrampica in cima alle impalcature e appende cose.

I rigger sono pochi, come forse potete immaginare. Hanno conoscenza, esperienza, prestanza fisica, si caricano di pesi e salgono, salgono, salgono. Non è infrequente scoprire che sono scalatori, nel tempo libero.

Prima dei rigger, ci sono altre figure incaricate di montare la ‘base’ del palco, diciamo così. Di questi, un bel numero è a rotazione continua, tanti sono ragazzi universitari o stranieri in cerca di lavoretti e di qualche spicciolo, per turni anche di 20 ore di lavoro continuo.

Cosa è successo durante il montaggio del palco della Pausini?

Boh.

Un cedimento del parquet, dovuto ad un vuoto sotto al pavimento. Una struttura ospitante inadatta. Riduzione del budget per mancanza di fondi. Materiale montato smontato e rimontato continuamente. Riduzione del budget per avidità. Mania di grandezza per mostrare palchi sempre più accattivanti. Modifica dei prospetti per aumentare il numero di posti a sedere da tutte le angolazioni del palco.

Si sta cercando di capire.

Non voglio aprire un dibattito sul ruolo di promoters, organizzatori, artisti, della fatica fisica che accompagna il vostro divertimento, oggi non è il caso.

Voglio parlare della piazza che resta.

Dovete immaginare i vari social networks, in particolare facebook, come una grande piazza di paese, o l’ingresso della vostra scuola superiore; un luogo di quelli dove ci si incontra con la comitiva. Ognuno ha i suoi argomenti preferiti, le sue opinioni, i suoi gusti, il suo modo di esprimersi. Se tizio sceglie di parlare di politica e caio dell’arbitro cornuto, non è che uno sia meglio di un altro, sono solo caratteri ed interessi che emergono.

Poi ci sono quegli argomenti che ogni tanto attirano l’attenzione di tutti. Io con Matteo ho lavorato, quindi è chiaro che ciò che tocca me potrebbe non interessare voi. Non avevo mai lavorato con Francesco, morto a Trieste durante la costruzione del palco di Jovanotti, ma mi ha toccato lo stesso perché la produzione dei concerti è un lavoro che svolgo da molto tempo.

Qualcuno ha scritto che Matteo poteva cadere dall’impalcatura dietro casa e nessuno avrebbe alzato tutto questo polverone  e che, quando capita, capita.

Rispetto questa affermazione.

E mi chiedo:

1) Quando capita, capita? Prego? E no. Non deve capitare.

2) Quale polverone? Il polverone è stato alzato per Jovanotti, questa morte invece non è stata recepita dall’utenza media. Matteo è diventato normale.

Ma Matteo era normale. Era sconosciuto, come l’operaio che vi ha messo le piastrelle nel bagno, come l’idraulico che vi ha aggiustato la lavatrice, come me che a volte ho allestito camerini ed a volte ho contato e gestito una per una tutte le persone che lavoravano ad un concerto.

Per favore, non trattate Matteo come un personaggio famoso di cui non si hanno canzoni da linkare o, peggio ancora, come una notizia già sentita. Lui dovrebbe essere una questione di tutti. Come le specie animali in via di estinzione, la natura che viene bruciata, le tasse che paghiamo, la crisi del lavoro, l’inutile ed incombente 8 marzo.

Ricordiamo Matteo per parlare del poco investimento sulla sicurezza nel lavoro, piuttosto.

Ricordiamolo per parlare dei morti che cadono dall’impalcatura di casa vostra.

Ricordiamolo per parlare di tutti quelli che lavorano in condizioni estreme, in qualunque settore, che prendono 6 euro l’ora ed ai quali si chiede uguale formazione specialistica, che vengono mandati allo sbaraglio dalle ditte nella più totale approssimazione, senza caschetto di protezione, senza scarpe antinfortunistica, senza corde, che vengono spediti sulla neve con i furgoni senza catene né gomme termiche.

Ricordiamo Matteo per parlare dell’avidità che fa risparmiare soldi sui materiali, per evidenziare lo scarso interesse a volte presente nei confronti della vita dei lavoratori: “finché non succede qualcosa nel mio cantiere, chissenefrega”.

Ricordiamo Matteo per guardare ogni tanto oltre il nostro cantiere perché, se uno cade, è come un domino: è facile che dopo cadano tutti. Conosco uno che fa proprio questo di mestiere, sicurezza sul lavoro, e che mi ha detto che non gli interessa affiancare un suo dipendente in un apprendistato, se le cose non le sa sono problemi suoi.

Ecco, ricordiamo Matteo per ricordare l’esistenza di certi individui.

A parlare di lui per chiedere più sicurezza e meno speculazione nell’ambito degli eventi, ed a piangerlo come persona, ci pensiamo noi.

Voi ricordatelo affinché le prossime vittime abbiano sempre meno nomi.

Ed affiancatelo agli altri discorsi che ogni giorno scegliete di fare.

PERCHE’ IL DIRITTO AD UN LAVORO DIGNITOSO RIGUARDA TUTTI.

5 Marzo 2012

il bacio più famoso della fotografia

Voglio scrivere per viaggiare e viaggiare per scrivere.

(201110021900)

Voglio raccontarvi di quei baci alla stazione, delle foto ricordo. Degli sconosciuti infiltrati nei ricordi di tanti altri, dei frammenti di vita immortalati in promesse, su pellicola destinata a sfumare. Degli abbracci in sala d’attesa, e dei saluti gridati al binario rincorrendo un finestrino opaco in movimento. Dei sorrisi lanciati dal predellino, di quei ciao sommessi a fior di labbra, come ventriloqui, mentre un velo di tristezza appanna gli occhi. Degli scambi di sguardi da film muto, delle piccole e grandi lacrime versate, una volta a bordo, o una volta soli sulla banchina. Dei paesaggi osservati dall’oblò, mischiati alla texture di pensieri sui momenti appena vissuti, o al resuming di una vita, quasi come se ogni volta fosse un bilancio. Delle attese per la prossima occasione. Dei minuti interminabili che precedono la separazione, o della contentezza che precede la partenza. Dell’eternavoglia di muoversi, e acquietarsi, in braccia calde e rassicuranti, una ricarica di vita breve ma intensa. Della voglia di portare la ricarica con sé per un viaggio perpetuo. Della voglia di vivere. In una lingua straniera, in un tramonto, in un sorriso.

Scritto il 2 ottobre, alle 19:00, sulla pensilina della stazione di Venezia.

photo credits: Robert Doisneau, Il bacio