stato di coscienza - state of consciousness

Lo stato di coscienza

(photo credits: Lindelokse, Nous) 

 

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Situazione attuale:

un sabato sera, zero gradi fuori, calduccio da termosifone dentro. Lucine soffuse. Letto, che non è mai troppo presto. Devo ancora cenare; non ho fame. Sto attendendo una telefonata che probabilmente non arriverà nemmeno oggi.

Il pensiero che mi gira in testa da tutto il giorno non è originale a me, né alla comunità.

Penso a cosa voglia dire essere felice.

Difficile, vero?

E invece no.

Essere felice è uno stato di coscienza.

La stessa coscienza che mi fa pensare a questo concetto da tutto il giorno, e che mi ha trovata un po’ giù, ma senza alcun motivo reale.

Questa è la storia.

Ero lì, tutta concentrata su come fare pubblicità a una delle mie pagine Instagram. Ne ho una che traccia il mio viaggio in fotografia, e recentemente ne ho aperta un’altra dedicata al mio disegno. E’ un disegno particolare, decisamente non per tutti, incentrato sulla figura femminile, l’amore e la passione, il sesso, e su come la mente ne resti imbrigliata. Instagram mi concede di tenere aperto l’account, ma mi blocca ogni forma di pubblicità, perché il contenuto è ritenuto sessualmente provocante —–>inclusa questa foto:

Mi ci è voluto molto pensare, molto coraggio e molto tempo rubato ad alcuni amici (grazie! Voi sapete chi siete) per buttare fuori questa produzione, e (senza alcuna sorpresa, comunque), Instagram mi ha bannato dal mondo dell’advertising.

Questo pensiero è bastato a modificarmi l’umore, mentre era in corso, tanto che a un certo punto della mattinata, quando mi sono ritrovata a interagire con mia figlia che si era svegliata ed è venuta a darmi il buongiorno, mi sono accorta che non ero la stessa. Ero, diciamo, ‘scurita’. ‘Negativa’.

Allora mi sono fermata a riflettere.

Davvero pensare a modi alternativi di farmi pubblicità poteva cambiarmi l’umore?

No. In realtò proprio per niente, ero ancora la stessa di quando mi ero svegliata – una Paola con il raffreddore, una vita in regola, due siti internet e due pagine instagram.

La questione era più subdola.

E’ così che mi è tornato in mente per la centesima volta il concetto di cui da sempre sono convinta, e di cui parliamo oggi in questo articolo.

Voglio davvero lasciare che il ban pubblicitario di Instagram mi condizioni la giornata, e mi porti a essere musona, scontrosa e a trasmettere energie negative? Chi mi incontrerà tenderà a chiedere ‘tutto bene? Ti vedo un po’ così’, e noi tenderemo a rispondere ‘No, non va tutto bene’. Questo darà il via a una serie di reazioni a catena, il nostro cervello ascolterà che non va tutto bene e ci farà entrare in un cono verso il basso, che alla fine ci porterà a dire che avremo avuto una orrenda giornata.

Ora proviamo a fare il ragionamento inverso.

Non posso fare pubblicità su Instagram alla mia nuova pagina. Ma: ho una nuova pagina, testimone del coraggio di rendere pubblica una nuova idea, e l’occasione di pensare a forme alternative di pubblicità. E’ sabato, c’è stato il sole, non sto lavorando, il che implica che ho un lavoro, che di questi tempi ti pare poco? Vivo all’estero e posso contare solo su di me per mantenere me stessa e la figlia. E ho un raffreddore, il che implica che sono in buona salute, considerati i miei precedenti. Tutto sommato, ho tutto quello che mi serve per essere felice. Tutto sommato, sono felice.

Certo, ho una lista lunga così di sogni, desideri che tardano ad avverarsi, un buco quando si parla di amore, e incubi notturni popolati dai fantasmi del passato. Ma tutto sommato sono felice.

Perché se aspetto che i miei sogni si avverino, i miei desideri si materializzino, il mio amore si materializzi sul cavallo bianco, quella telefonata arrivi, i miei incubi se ne vadano, e Instagram mi faccia fare pubblicità, non sarò mai felice. Specialmente per la parte del cavallo bianco: questo è sempre il sito della Druida, e si sa quanto io ci tenga all’amore.

Non lascereste mai che qualcun altro si prendesse il merito delle vostre gioie, vero? Allora, allo stesso modo, non lasciate che qualcun altro o qualcos’altro vi rubi il diritto a essere felici. Siete voi a stabilire a cosa dare un peso, quando vi alzate la mattina, e da cosa vi farete condizionare l’umore.

E non mi dite che parlo facile, e la vostra situazione è più complessa. Tutti abbiamo situazioni complesse. Lo sapete. Il punto è che ci sono due tipi di persone: quelle che ‘Sono felice e’, e quelle che ‘Sarò felice quando’.

Voi quale siete?

 

carte da gioco e dadi oro

La spinta del cuore

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Mentalmente, mi appresto ad andare. Verso dove è solo una bozza ancora tutta da chiarire, ma è certo che i tempi sono quasi maturi, e che l’unica cosa che mi guiderà sarà, come sempre, il cuore, perché una vita senza seguire il cuore non vale la pena di essere vissuta.”

La citazione che avete appena letto è di questo brano qui.

Quello che ho scritto a maggio e per il quale avevo promesso un chiarimento ‘a breve’.

Poi si sa come ‘a breve’ diventa per me. Diciamo che il concetto di tempo è molto esteso, per una che si chiama la Druida. Così, da maggio ad ‘a breve’, ci ritroviamo a fine luglio.

Il motivo per cui ho sentito il bisogno di chiarire il va-dove-ti-porta-il-cuore praticamente due minuti dopo che lo ho scritto (nonostante i due mesi dopo che lo ho fatto), è nato da una lettrice che ha lasciato un commento su Facebook sotto al post.

Le sono grata, mi ha dato modo di immaginare il concetto nella mia testa e di dargli forma: di modellarlo, così come lo intendevo io. Ed è per quello che oggi mi ritrovo a scriverne.

Il cuore che seguo non è un cuore di amore.

Lo sapete: l’amore è il mio tema centrale, fulcro di un viaggio, quello della Druida, fluttuante, tra il sogno e la realtà, l’immaginario e il reale, il tangibile e l’impalpabile.

E’ l’amore che mi muove, e questo amore non è quello dei Baci Perugina che vi state forse immaginando. L’amore di cui parlo è un concetto esteso universale, che va sopra e che va oltre. Above and Beyond.

Ma le scelte d’amore e le scelte di cuore sono due cose differenti.

Il cuore ha il suo protagonismo molto più ampio su altre scene, è “tutto un insieme vasto di esperienze, sapori e sensazioni, che hanno a che vedere con tutto il tuo essere, e l’amore è solo una parte di esse”, come scrivo in questo articolo per Donne Che Emigrano all’Estero.

Il cuore è il mio istinto.

Ho sempre cercato di fare le mie scelte seguendo l’istinto e non la mente, perché ogni volta che ho seguito la mente alla fine ho sbagliato.

E per sbagliato intendo che mi sono trovata scomoda e inadeguata. Non pentita, perché comunque se quella scelta la avevo fatta, aveva un senso, e c’era una lezione da imparare. Ma alla fine la morale era sempre la stessa:

la mia mente era in linea con il mio cuore?

Quando la risposta è stata no, il passo successivo è stato cambiare strada; indovinate per andare in quale direzione.

Non dico che seguire il cuore non porti dolore. Lo porta eccome.

Porta sofferenza e gioia, porta essere dilaniati, porta avere il coraggio di armarsi, porta il disturbo di rompere le proprie barriere. E dio sa se fa male a volte.

Ma dio, se ti dà quello che cerchi.

E quando quello che cerchi è tuo e lo ho hai costruito tu, nessuno te lo può togliere.

Immagino che a qualcuno (forse a più di qualcuno), tutto questo sembrerà folle o senza un senso concreto.

Seguire il cuore è l’equivalente di sedersi in una stanza neutra, chiudere gli occhi e pensare: “Cosa voglio davvero? Dove mi sento trasportato? Cosa mi fa sentire appagato?” e poi farlo.

A volte, seguire il cuore è anche sedersi in quella stessa stanza, chiudere gli occhi e pensare “Chi mi fa sentire completo?”, che significa ‘naturale’, ‘completementare’, ‘a casa’. Ma questo è un altro discorso. Questo è un altro articolo.

Il punto di oggi è il cuore come intuito, come istinto che ti dice sempre dove andare e dove sta la verità per te.

Puoi decidere di seguirla, o di utilizzare le barriere di convenzione.

Ogni scelta è buona. Nessuna è condannabile. L’importante è l’accettazione.

(photo credits: Matt Flores on Unsplash)

scena dal film 'Chocolat', Juliette Binoche e Johnny Depp

La scossa

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L’otto marzo pubblicavo l’ultimo post prima di questo. Oggi è il 5 maggio, come al solito mi sto dimostrando incostante.

In realtà un motivo ce l’ho, questa volta, per non aver scritto in – praticamente – due mesi, e pure bello grosso. Ma non ne parlerò. Questo è un po’ il guaio dell’essere un personaggio pubblico (una sorta di): se dai in pasto la cosa sbagliata, diventa un casino.

Dunque, allontanate pure le congetture dalle vostre menti, che tanto sarebbe assolutamente inutile perché non vi dico niente, e passiamo al punto dove vi voglio portare.

Quanto siete cambiati dentro?

In inglese, la sveglia dal torpore si dice wake-up call.

La wake-up call è la scossa, un campanello d’allarme, il segnale che è ora di cambiare, la chiamata alle armi; quella catasta di roba che vi si rovescia addosso e non potete ignorare.

Ho avuto molte wake-up call nella vita, quindi le cose sono due: avevo un sacco di lezioni da imparare oppure non sono ancora arrivata a svoltare l’angolo giusto.

O magari sono entrambe le cose. E con questo non voglio dire che stavolta ci sono, perché come fai a capire quale sia l’angolo giusto diciamo che con certezza ancora non lo so.

In ogni caso: è suonata un’altra sveglia.

In un paese, qui, dove puoi fare un po’ come ti pare, rispetto alle chiusure forzate di altre nazioni; dove la mascherina non è obbligatoria; dove non ti sparano addosso; dove l’approccio elastico ha trovato la mia approvazione (ah, cosa ho detto!); dove il silenzioso razzismo si stampa anche nella discriminazione di un essere umano malato.

Per questo ultimo motivo e per tanti altri, mentalmente mi appresto ad andare.

Verso dove è solo una bozza ancora tutta da chiarire, ma è certo che i tempi sono quasi maturi, e che l’unica cosa che mi guiderà sarà, come sempre, il cuore.

Perché una vita senza seguire il cuore non vale la pena di essere vissuta. Ricordatevi che è oggi il tempo in cui siete.

Né ieri, né domani.

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Che ti fa stare bene.

I colori.
L’aria calda del vento e dell’intimità.
La sensazione di stare facendo una cosa giusta.
La foto del cielo al tramonto.
Tu.
La delicatezza dell’essere.
Un palloncino che vola di mano in mano.
Il piumone.
I capelli che fluttuano nel sole.
Una scatola di pastelli.
Il mercato del sabato mattina.
Il crepitio del camino.
L’albero di Natale di notte.
Tè e biscotti.
La ricerca della paella senza pesce, che è come trovare un ago in un paglialio.
La spiaggia in città.
La spiaggia in città, impagabile.

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Sentirsi a casa. Pensieri confusi in ordine sparso

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C’è stato un tempo in cui pubblicai la foto che vedete qui sopra, con questa didascalia:

La mia casa non è in nessuna città.La mia casa è un’altra testa che ragiona come la mia testa. Ecco. Non è il dove. E’ il come, con chi.

La avevo legata ad uno scritto, questo qui. La foto era stata scattata a Lignano, nell’agosto del 2010. Lo scritto era di qualche mese dopo. Citavo Erasmo, citavo Rotterdam.
Pensavo l’Olanda lontana anni luce, anzi direi del tutto incalcolata – non era affatto nei miei programmi; eppure, in perfetto stile “nulla capita a caso”, questa nazione e il titolo di quell’articolo nel corso del tempo hanno assunto un altro sapore.
Non voglio nemmeno provare ad infilarmi in un’interpretazione del destino.
Il punto è che in quell’articolo parlavo di casa. In quella foto parlavo di casa e oggi, nel 2018, precisamente stamattina, mi sono di nuovo fatta quella domanda: qual è casa.

Già, qual è casa?

Cos’è che la definisce?
All’ennesimo giro di boa e cambio di appartamento, sono di nuovo che ci penso, e una risposta continuo a non averla.

Ho visto e visitato miriadi di case, in generale, di gente straniera e non, in Italia e all’estero. 
Parlo ovunque con chiunque, sono una che fa conversazione e che ascolta storie dappertutto.
Lavoro in hotel, prendo treni e frequento aeroporti ogni giorno, potete immaginare quanta umanità io viva quotidianamente.

Vedo persone intorno a me scontente, certo, ma ne vedo altrettante felici e soddisfatte.
Vedo gente spostarsi e avere problemi per questo, ma comunque cercare di adattarsi.
Costruiscono nidi, scelgono il colore delle pareti, cambiano l’arredamento.
Si sentono a casa, pur essendo lontani dall’origine migliaia di chilometri o anche solo dieci metri.
Io, dall’articolo di Erasma, ho continuato a viaggiare in lungo e in largo e ancora non ho trovato un posto dove fermarmi perché mio.

Mi fermavo volentieri su un divano bianco che avevo, questo sì.

Non proprio bianco, era un po’ caffellatte; un po’ ruvido che se ti sedevi in calzoncini ti facevi male alle gambe.
Lì c’era aria di casa. Era un ambiente quasi tutto bianco ma non sterile.
Un’altra delle case in cui ho vissuto, invece, era quasi tutta sterile ma non bianca.
A volte, per quanto ti sforzi di abbellire l’ambiente, non ottieni niente che abbia calore.

Allora forse la casa è dove c’è calore.
Ma calore di cosa o di chi?
Non dovrebbe venire da se stessi, o ci vuole una famiglia?
Eppure, quando vado da mia madre, mi sento a casa anche se lei non c’è.
Quindi casa non sono le persone.
Ma nemmeno l’ambiente.
Forse sono i ricordi.
Magari casa sono i ricordi belli, che quelli brutti non li vuole nessuno come definizione di casa.

Quando ero piccola – ma nemmeno tanto piccola, diciamo più quando ero ragazza – volevo vivere in albergo. 
Parlavo con mio padre, che mi spiegava che aveva fatto i calcoli: non conveniva possedere un appartamento perché, a conti fatti, la spesa globale tra bollette, manutenzione e affitto costava quanto un residence, con gli evidenti vantaggi che quest’ultimo comportava.
Pianificavamo di vivere così, alla sua pensione.
Non ci è arrivato, ma quando ne parlavamo anche un residence sapeva di casa.

Quindi oggi, fine agosto 2018, mi trovo ancora a non sapere dove andare e a non sentirmi in nessun luogo.

Però ho cinque certezze, e le voglio condividere con voi. 

Nel frattempo: pensate alla vostra definizione di casa.

Mi sento a mio agio quando torno nella casa di Roma.
Ci sono alcune città nel mondo che mi mandano buone vibrazioni.
Sono sinceramente contenta per le persone che dichiarano di sentirsi a casa nelle loro circostanze – non so come fate né perché, e vorrei tanto vivere quello che sentite, ma vi ammiro e sono felice per voi.
Le tre grandi domande del mondo sono “cos’è l’amore”, “qual è il senso della vita” e “che significa casa”.
Continuerò a viaggiare, ascoltare e osservare, per cercare la risposta a tutte e tre.

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Di come posso sapere cosa accadrà nel 2018 + una domanda per voi

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Esattamente il 1 gennaio 2017 aprivo ufficialmente partita iva.

Avevo immaginato molte volte me stessa in miriadi di attività imprenditoriali ed indipendenti, con grande fatica in Italia, per la solita questione di tasse e burocrazia.
Ho sempre coltivato idee. Alla fine, ho finito per piantarne una in Olanda.
Al semino piantato ho dato il nome di The Dots Connection. Il suo compito era quello di raccogliere i miei vent’anni di esperienza in comunicazione e metterli al servizio di ognuno di voi, come guida personale.
Tuttavia, per quanto l’idea piantata mi intrigasse, non potevo abbandonare la creaturina, ovvero il posto dove siete ora. Ho deciso dunque di registrare, sotto la stessa partita iva, anche il nome I Viaggi della Druida, e di affiliargli tutta l’area di creatività e arte, di cui la mia micro-impresa è dotata.
Nel corso del 2017, ho lavorato con entrambi i nomi. E, per certi aspetti, ho finito per fare con entrambi attività inaspettate.

Perché vi racconto tutte queste cose?

Qualche anno fa, un giorno di fine dicembre, ho scritto un post di auguri per l’anno a venire e, nel tempo, lo ho riproposto spesso. Ci credo sempre, e ancora lo riscriverei proprio come lo avevo prodotto allora.
Quest’anno, però, sento l’esigenza di fare il punto in anticipo.
Non posso dire di aver amato il 2017, ma nemmeno di averlo odiato.
Ho avuto ciò che ho chiesto, anche se non nei termini in cui lo immaginavo. Ma i termini in cui le cose si sono presentate hanno portato, a loro volta, ad altre situazioni che altrimenti non ci sarebbero mai state (o forse sì, ma chissà con quali altre infinite varianti nello spazio della vita).
Non ho avuto i lavori che pensavo. Ho avuto un gran numero di cadute accidentali più un danno da gatto, che tutte insieme hanno fatto giocare tutte le mie articolazioni. Ho avuto un gatto, e chi pensava di prenderne uno. Non sono tornata da mia madre a Natale. Ho avuto un numero imprecisato di raffreddori, otiti e febbri al punto che ho smesso di contare le malattie. Ho faticato mentalmente, più di quanto avrei dovuto e voluto. Ho avuto delusioni clamorose. Ho visto ancora l’egoismo umano, è ovunque oh, e son pure convinti di averci ragione. Mi hanno dato della femminista: ahah, a me! Ho avuto dei lutti.
Allo stesso tempo, ho insegnato a studenti universitari. Ho avuto la possibilità di trasmettere la mia visione di un utilizzo consapevole degli strumenti di comunicazione. Ho svolto una montagna di lavoro gratuito che mi ha portato a conoscere persone e storie interessantissime, e mi ha portato anche a lavori remunerati. Ho avuto una maggiore conferma delle persone che posso considerare presenti per me e a quale livello, e di quelle per le quali io sono disposta ad essere presente. Sono tornata in Italia in un viaggio improvvisato. Ho fatto una settimana di mare bella come un mese, e spero tanto di poterla rifare anche l’anno prossimo. Ho conosciuto di più mia figlia. O meglio: mia figlia mi ha permesso di conoscerla. Ho conosciuto di più me stessa.

Per questa maggiore conoscenza di me stessa, senza che mi serva la veggente so già cosa accadrà nel 2018 e posso fare il punto in anticipo.

Ho avuto il mio semino imprenditoriale piantato e già vedo come deve cambiare e svilupparsi: sono in arrivo grandi sorprese e novità. Ci sarà da lavorare davvero tanto, ma ne varrà la pena.L’unico lavoro che vale la pena fare nella vita è quello che faresti anche gratis.
Il viaggio (tutto! chilometri e non) è il cardine del mio pensiero, del mio cuore, del mio animo e della mia vita.
Insieme è meglio di soli e da soli, sempre e comunque. Non credete a chi vi dice il contrario o a chi simula di esserci ma agisce solo per sé.
Il corpo è un mezzo di spostamento che, finché c’è, va curato e coccolato (lezione vecchia che vale sempre la pena ricordare).
C’è molto più di quel che ho scritto sopra, ma per ora va bene così.
Un buon rossetto risolve cose.
Vi lascio con un mio selfie di Natale 2017 e, se non avete niente da fare, potete provare a immaginare quali sono le cose che questo rossetto potrebbe aver risolto.
Per ultimo, vi faccio una domanda:

siete pronti ad abbracciare quel che arriva, senza ostacolarlo con tutte le vostre forze?

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La via per la felicità

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Devo raggiungere un posto.

Non chiedetemi quale sia, devo raggiungerlo e basta. 

Finalmente mi decido a prendere la bicicletta.

Dopo tanti mesi passati a dire che non ce la avrei fatta – per via del ginocchio, e poi non vado in bici da una vita chissà se ne sarò ancora davvero capace, scopro che non solo ci so andare ma il ginocchio non fa neanche male.

Così, salgo in sella sotto al semaforo rosso, accanto a un motociclista, un signore sulla cinquantina che guida un bolide in stile Ducati.

Quando scatta il verde parto io. Dritta, in linea, senza sbandare, sorpasso perfino il motociclista, che mi guarda ammirato.

Come se una bici potesse superare una moto… eppure è successo.

Percorro un rettilineo che mi ricorda il ponte di Corso Francia a Roma, imbocco altre due strade un po’ tortuose, sottopassi e cavalcavia, sono ancora dritta, mi stupisco; sempre con andatura liscia e sfrecciante.

Arrivo vicina alla mia meta e, nei circa 500 metri che precedono l’arrivo, uno stuolo di ragazze in maglietta bianca si allinea lungo il bordo delle strade finali e comincia a sparare con un mitra.

Tutte ne hanno uno, ma anche io ne ho uno: lo stesso loro, guarda caso, e senza mai frenare lascio andare la bici e comincio a scivolare quasi a velocità supersonica, come se fossi ugualmente su due ruote, o come se avessi le ali.

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Che sensazione incredibile.

Sparo a mia volta. So che nessuno si farà male e se fosse una vera battaglia la strada sarebbe già rossa, ma non è una vera battaglia e io comunque sto vincendo.

Con grazia e senza il freno di alcuna pesantezza arrivo alla meta, ed entro.

L’edificio ha alti e bassi. Un teatro al piano terra – livello più alto, un vasto teatro da opera classica dove si stanno svolgendo le prove generali della pièce che andrà in scena la sera, è una prima.

Al piano più sotterraneo: una piscina e altre sale sportive dove sono in corso tornei pseudoamatoriali ma con presenza obbligatoria, capitanati dall’insegnante di ginnastica di mia figlia.

La sala è gremita, tutti mi attendono.

Sono la regina indiscussa, non so perché. Sono amata, stimata.Persone di ogni età si avvicinano a me e mi chiedono consigli, uno sguardo, sorrisi.

In particolare, una signora sulla settantina, dall’apparenza molto snob e ricca, elogia la mia persona e dimostra affetto e simpatia. 

Ma io ho voglia di un caffè. Ho bisogno di un caffè.

Al piano delle piscine c’è una macchinetta di bevande pronte, io vorrei un bar.

Anzi, non voglio un caffè, ma un cappuccino, con quella sua bella schiuma corposa e densa.

Salgo a livello. Altri signori si fermano a parlare, altre chiacchiere, altre ammirazioni. Mi serve quel caffè.

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“Scusi, posso avere un caffè?”, “mi spiace il bar è chiuso”, dice la signorina al bar del teatro.

Esco, vado in strada, fluttuo veloce, “devo tornare presto nell’edificio”, non c’è un bar. Non vedo un bar. Non c’è mai un bar quando serve.

Lo dico anche al mio caro amico e confidente che mi chiama in quel momento per parlarmi delle sue figlie e di come gli va la vita, “non trovo un bar, sembrano scomparsi tutti. Ah no, aspetta, forse ne ho trovato uno”.

Sguscio all’interno, con il telefono in una mano salto in alto per sbirciare dall’enorme muro che separa i tavolini dal bancone. Salto in alto. Io. Come sono elastica e senza peso, meraviglia.

Lo faccio passando tra due uomini seduti a conversare.

Sono affascinanti, uno in particolare attira la mia attenzione,con il suo sguardo luminoso, i capelli neri, il sorriso. Longilineo. Più o meno la mia età. Vivo. Mi piace.

Portano entrambi il cappotto.

Arrivo al bancone del bar e chiedo un cappuccino.

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La barista esce dal bancone, farfuglia qualcosa, aggiunge che lei parla anche inglese e non c’è bisogno che io mi sforzi di parlare olandese, per giunta con l’accento italiano, che si sente.

La detesto. E dov’è il mio cappuccino?

Vado via, esco, torno indietro, decido di optare per la macchinetta.

Lungo la strada, mi fermo sotto un ponteggio a rispondere a una chiamata importante: è la commissione papale che mi informa che mia figlia ha vinto il concorso, con il suo saggio su Garibaldi.

Rientro nell’edificio.

Vado alla macchinetta, apro il portafoglio e guardo: ho circa 5 euro in monete. Ho una moneta nuova da 2, e una nuovissima da 3, la hanno appena fatta, è tra le primissime in commercio. La guardo: è enorme e lucente, bellissima, grande quanto una fetta di patata. Non la prenderà nessuna macchinetta.

La riguardo ancora e penso che l’inflazione è una brutta cosa.

Guardo la moneta, la macchinetta, la moneta, la macchinetta.

Non c’è il caffè.

E nemmeno il cappuccino.

Penso che ho tutto quel che apparentemente si possa desiderare. La velocità, volare, un’arma per vincere, affetto e ammirazione, monete lucenti. Sono ricca, e non posso comprare nemmeno un caffè.

In quel momento mi raggiunge mia figlia, che mi chiede “mamma, ma allora ho vinto? Alla fine abbiamo partecipato a quel concorso?”

“Sì, tesoro, hai partecipato. Ma lo hai fatto in un sogno. È tutto un sogno, come lo è anche questo.” 

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Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
 
Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d’ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
 
Sempre devi avere in mente Itaca
– raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
                                                                                                          
Konstantinos Kavafis, 1863 -1933
stairs-pexels-PaolaRagnoli-IViaggidellaDruida

Scale

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In questo momento sono qui.

Qui dove, direte voi, vediamo solo quattro gradini e un buio sopra e sotto.

Esatto: sono nel punto che non si vede, che può essere uno qualunque.

Questo accade perché non lo so nemmeno io qual è il mio ‘qui’.

Ho scelto una foto delle scale perché, mio malgrado, temo siano diventate il mio oggetto simbolico, il mio switch del cambiamento, la mia cartina tornasole, il giro di boa, e il luogo in cui mi ammazzerò, probabilmente, se continuo così.

Novembre 2009. A un concerto, salto letteralmente al buio circa 3 gradini per un’altezza totale di un metro. Manca il corrimano, c’è il vuoto alla mia sinistra. Metto il piede lì, nel niente. Cado di schiena, sbatto la testa. Dolori atroci, ospedale il giorno dopo, quattro mesi di analisi, collarino, sedativi, antiepilettici, cortisonici. Mal di testa, difficoltà di linguaggio, tremore a una mano. Chiusura di un grosso capitolo della vita a febbraio 2010: piena di rabbia, lancio il collarino. I dolori, lentamente, cominciano a passare. Mi ammalo di altro, ma almeno cammino.

Dicembre 2014. Su un tram che frena troppo, scivolo su una manciata di gradini, ruotando sul ginocchio destro. Non cado. Dolori intensi, ospedale due settimane dopo. Due ossa rotte, cartilagine andata, un intervento, sei mesi di letto. Infiltrazioni al ginocchio. Codeina. Due anni di fisioterapia. Overdose di pensieri. Perdo tutto, rinuncio a ciò che resta. Chiusura di un grosso capitolo della vita ad agosto 2016. I dolori, lentamente, cominciano a passare.

Giugno 2017. Dalle scale di casa, salto, di nuovo al buio, gli ultimi gradini alle 3 di mattina, per seguire il gatto. Manca di nuovo il corrimano, i gradini girano verso sinistra, non ne sento uno. Cado di ginocchia, appoggio sul sinistro. Dolori alle gambe. Lividi, niente ospedale. Anche niente medico, siamo in Olanda. Ancora codeina. Comincio a chiedermi che problema ho, io, con le scale. I dolori, lentamente, cominciano a passare.

Giugno 2017, sei giorni dopo. Al centro delle scale di una casa, cado all’indietro. In quel punto la scala si allarga, e i gradini girano a sinistra. Non voglio ancora, no. Ma è chiaro che sono indebolita. Mi aggrappo, un braccio provato dai lividi dei sei giorni prima, l’altro indebolito da un danno permanente del gatto. Ruoto ancora sulla gamba destra, giro anche la sinistra. Fermo la caduta al terzo gradino. Un, due, tre, ho visto brevemente la storia della mia vita e gli unici tratti salienti che mi sono venuti in mente – i miei affetti. Dolori, ovunque. Sospetto che le scale stiano cercando di mandarmi un messaggio.

Sospetto che le scale mi stiano fermando.
Forse c’è qualcosa che devo vedere.
Forse c’è qualcosa che devo cambiare.

Forse devo solo far uscire di casa il gatto.

conchiglia in riva al mare

L’ingrediente segreto della vita

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Stamattina mi hanno mandato questa: 

Immagino che abbiate premuto Play, per sentire di cosa si tratta.

Se non lo avete fatto, andate ora – zum, premete e lasciatevi accompagnare dalle note, mentre continuate a leggere.

Avrete un’idea di dove sono mentalmente e di dove mi ha mandato il mio interlocutore, con questo link del mattino. 

Ogni brano è un pensiero, un sentimento, un’emozione.

Ci sono stati d’animo da pop, stati d’animo da rock, stati d’animo da metal, stati d’animo da latina, and so on.

 

Oggi, 15 giugno 2017, alla vigilia del mio primo anniversario di vita olandese, il genere musicale di questo brano mi ricorda che: 

 

Io questa Olanda la sento come un esperimento dell’ora. A quanti dico che non penso di restare qui per il resto della vita, gli si sgranano gli occhi.

Il passare delle stagioni è soggettivo e, allo stesso tempo, condizionato dall’ambiente al quale il nostro corpo è abituato. 

Non trovo così scioccante la presenza della luce diurna, tanto atipica rispetto all’Italia ma c’è di peggio, vi assicuro.

L’Olanda mi piace molto più di quel che avrei creduto possibile; e di posti ne ho vissuti tanti.

Bisognerebbe rendere obbligatorio il soggiorno all’estero a chiunque, come un esame, una materia a scuola: pim, gente buttata così, con una manata in mezzo alle scapole che li spinge, a tutti quanti. C’è da imparare a palate, e il mondo alla fine sarebbe un posto migliore.

Nonostante le manate in mezzo alle scapole, alcuni restano ottusi come un lavandino intasato. Ehh, là non c’è nulla da fare, ci consoliamo con la speranza che siano una minoranza.

Mi sono divertita a passeggiare nella neve, questo inverno, ma non è il mio.

Io non sono una da montagna; non sono nemmeno una da campagna. Io sono una da caldo/mare. Sono cresciuta al mare, conosco a memoria gli effetti della salsedine, il beneficio dello iodio e il suono dell’incresparsi delle onde. I baretti sulla spiaggia. La birra e le patatine mentre i piedi sono affondati nella sabbia. Quella stessa sabbia che ti ritrovi nelle mutande e sul pavimento di casa. I negozi di canotti gonfiabili in fila indiana sullo stradone principale. L’impossibilità di coltivare un giardino se sei di fronte alla costa. Il mare d’inverno e il suo grigio che comanda. Il mare comanda. Decide, inghiotte, ricopre e risputa. Separa e unisce terre. Fa apparire i sogni, perché questi sono l’unica cosa che non ingurgita mai. 

Comunque io sono anche una da città, quella che puzza di catrame e che scorre dai finestrini dei mezzi pubblici. È possibile, dunque, che mi serva una città grande dotata di mare.

Ma sono anche una da scenario deserto. E’ altrettanto probabile, allora, che mi serva un nulla, vicino a dell’acqua, due piante e una grande tecnologia a portata e al bisogno. 

Per ora sto ancora cercando. Ma comincio a sospettare che non troverò mai, nel senso canonico del termine.

Perché semplicemente non devo trovare qualcosa di concreto. È possibile che il mio tesoro sia proprio l’essere ricercatore.

La vita è viaggio.

E dai, via libera a tutte le banalità che vengono in mente dopo questa affermazione. Ma riflettiamoci un solo minuto: la vita è una cosa in movimento. Viaggia per forza di cose, anche se non vuole, anche se non volete. Sta a voi decidere come: non trovate?

La vita è viaggio, ma questo viaggio non è nulla senza la poesia.  

La poesia è il suo ingrediente segreto. È l’aggiunta di sale qb alle ricette. È quella sensazione che non sai spiegare ma che ti fa sentire tanto bene, in certi momenti della giornata. Che so, tipo come stai dopo una chiacchiera con il tuo caro amico, per esempio. Oppure è quell’aperitivo mentre guardi il tramonto. È discutere con qualcuno del più, del meno, e pure del senso della vita. È un raggio di luna che filtra tra i rami secchi. È il pranzo della domenica. È l’abbraccio della mamma, il bacio di papà. È stare seduti sulle scale a parlare per ore di cosa ti è accaduto quel dato giorno. Sono i figli quando vogliono passare del tempo con te. È il ballo improvvisato per cinque minuti sulle note di una canzone che va. È osservare un dipinto a lungo e in silenzio. È un attore che parla con te quando recita. È studiare le pieghe morbide che il marmo ha assunto sotto l’incredibile scalpello di alcuni scultori.

Io ho visto la poesia e so che, quando la trovi e la ignori perché ‘ci penserai dopo’, quel dopo potrà significare tardi.

Si può inseguire la chimera e anche raggiungerla, si possono scalare montagne e abbattere i nemici, triturare tutti al proprio passaggio, lavorare senza pausa per il successo, e non avere la più pallida idea di cosa sia il successo per davvero. 

Il successo è un pacchetto di sale.

Lavorazione immensa per un consumo rapido, ma non la vedi mai in quest’ottica. Valore intrinseco maggiorato, se impari a conoscerlo e a dosarlo qb.

Senza il sale qb, la vita è un viaggio a cui manca e mancherà sempre qualcosa.