ponti di chicago, punto di attracco

Il punto di attracco

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Mi sono trovata a ripercorrere il mio blog, oggi, e con esso alcuni degli articoli che ho scritto in passato.

Ogni volta che qualcuno mi chiede “di cosa scrivi?” io non so mai davvero che dire.

Di “amore”, rispondo, “è il mio tema preferito”.

Scorrendo i vecchi articoli, ho perso il conto di tutte le volte che ho davvero parlato di amore; di tutte le volte che credevo di averlo trovato, e di tutte le volte che ho tentato di darne una definizione.

“L’amore è come una pizza margherita: pochi semplici ingredienti e tanto tempo di lievitazione.”

Questa è la frase che, tra tutte, è quella che ricordo bene di aver scritto, e che si avvicina di più a quel che credo ancora.

Lungo lo scorrere di quegli articoli, lento come il fiume Tevere della mia città, ho trovato diversi punti di attracco.

Alcuni erano marci.

Alcuni erano validi, ma non abbastanza forti.

Alcuni erano sbagliati.

Alcuni non erano proprio punti di attracco, ma quando sei in giro con la tua barchetta e ti vuoi fermare, fai di ogni posto una fortuna.

Guardando ognuno di loro, a volte mi sono chiesta se davvero ci abbia mai capito qualcosa; se non abbia cambiato troppe volte; se non abbia mai giurato amore troppo presto. O se invece confondevo tutto il tempo gli attracchi con le pizze margherita.

La verità è che ognuna delle persone che è passata nella mia di vita, così come nella vostra, ha avuto il suo senso.

Ogni amore è stato vero. Ogni parola detta è stata sincera e sentita. Con tutto il dolore che questo a volte ha comportato.

Come mi sono trovata a dire oggi, a volte soffri e ti si lacera il cuore con tutta l’anima attaccata intorno, e a volte vinci, ci guadagni e voli. In ogni caso, vivi. E non c’è cosa più bella.

Alla soglia dei 50 che compirò alla fine di quest’anno, mi trovo all’inizio di un nuovo libro nella biblioteca della mia vita.

Questa biblioteca scorre lentamente sul fiume. Ho smesso di correre e cercare affannosamente qualunque cosa non mi appaghi come persona. Scruto l’evoluzione; vedo i miei vecchi attracchi, rileggo i libri più vecchi, faccio tesoro di tutte le lezioni che ho imparato.

La migliore, quella che mi rende più fiera, è come la somma del tutto faccia di me la persona che sono oggi. Senza barriere temporali, ancora con la voglia di farmi cullare dalla giusta onda.

Lentamente, mi avvicino al punto di attracco.

Lascio che a guidarmi sia la mia consapevolezza di me stessa.

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My year in review

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A bit more than a year ago, something happened that made my life take a new direction.

I was out for dinner, explaining to my ex how much I had learned the lesson, while he replied that he would never, ever follow me anywhere.

An exciting start in January, you’ll probably think. At least, that’s what I thought.

I had just come out of a tough year I was still recovering from. The new one just started, and the “who cares” mood already took place. That was awesome.

I found myself obsessively thinking for a solid twenty days, “What am I doing?”.

“I wouldn’t follow you” was growing inside me.

So, one morning, a little less than a year ago, I woke up and out of the blue everything was clear.

By sitting and waiting, I was losing opportunities, people, future memories. I was losing my life.

I let it go.

I let it go and, as a consequence, I immediately saw what I had before my very eyes and never noticed: the new direction mentioned in the first line of this article.

Side note, this new direction also has a name, and he also opened my eyes to the world throughout the year, but we are not here to talk about this, now.

The thing is that it was not even the end of January, everything had changed already and I had no idea what was waiting for me.

I embarked on a journey full of words, facts, emotions. I must say, February was not that bad.

In March, the first unexpected thing happened.

A terroristic attack in small U; on the tram that my daughter takes to school.

An unforeseen trauma, which we never talked about again. It left us breathless, and still without the courage to take that tram again.

April and May passed quietly, and June welcomed a big death in the family. It’s not the first time that a family death happened since I’ve been living in Holland, but this one was different: this one was really special. This one is something I was waiting for a lifetime, somehow.

I was at work, that day. It was a Saturday morning. I got the news in the middle of the shift; there was no one to talk to. Things remained like that, captured in time.

Besides, due to that death, a piece of family crumbled, revealing the great sadness of human existence.

In July and August, I slept, worked and slept, waiting for a September that went quiet and proved explosive.

In September, nothing ever happens in my life, but I usually consider it as my personal January. This September, in particular, marked the last year of high school for my daughter, who turned 18 in February, and an interesting month-long life experiment, which allowed me to study my frailties.

I felt the passing of time. The lack of a second child. The inconsistency of my future.

All things that I didn’t really feel like dealing with; but I cannot make them disappear either.

I just couldn’t talk about any of it. I closed my eyes and ran.

A lot.

Until a wall stopped me in October.

My daughter suddenly got sick and my life paused.

Since then, it was all a descending path of fatigue, darkness, and confusion, and the only certainty was being calm and impassive, while a few people made me realize how strong I am living abroad and raising a kid all alone.

At the same time, work put me to the test with challenges, training, and impossible shifts, which I accepted because I didn’t have to stop. I couldn’t stop.

In November, I was gasping, trying not to think.

In December, I didn’t breathe much.

Yet, I was still traveling.

When the end of the year finally came, I was totally exhausted, divided into 4 parts: work, my love life, my daughter, and the group of life events happened, each part required maximum attention; the fourth above all had never had a voice.

I spent the 31st in silence, with no clue what to think.

And on the night of the transition, I collapsed.

I collapsed under a stream of avalanche thoughts, which shed light on the caducity of time and the difficulty in embracing and keeping beautiful things.

My job became small; my daughter’s voice became more and more distant as she said: “I’m happy for you, you deserve it”.

I reopened the new January with the same question as the year before.

Right now, I’m working night shifts, which for me is the equivalent of going on a long journey, walking in a forest or staring at the sea: it gives me the time and space to think.

And that’s so perfect, for a month that is running incredibly slow.

Poco più di un anno fa, è successa una cosa che ha fatto prendere alla mia vita una nuova direzione.

Ero a cena fuori, che spiegavo al mio ex quanto avessi capito dell’attesa e del tempo, mentre lui mi rispondeva che mai e poi mai mi avrebbe seguito da qualche parte.

Un inizio di gennaio esaltante, penserete. Io lo ho pensato.

Ero appena uscita da un anno forte, da cui ancora mi dovevo riprendere. Il nuovo anno cominciava, e “who cares” sembrava già regnare primario, dando l’impronta ai futuri mesi.

Sono rimasta a pensare per buoni venti giorni. A che stavo facendo, cosa avevo di concreto in mano, cosa speravo di ottenere.

“Io non ti seguirei” mi stava maturando dentro.

Così, una mattina di poco meno di un anno fa, mi sono svegliata che avevo capito. A stare seduta ad attendere, mi stavo perdendo occasioni, persone, futuri ricordi. Mi stavo perdendo la vita.

Ho lasciato andare.

Ho lasciato andare e il primo effetto di questo gesto è stato vedere ciò che avevo davanti agli occhi e di cui non mi ero mai accorta: la nuova direzione citata nella prima riga.

Tra l’altro, questa nuova direzione ha anche un nome, e ha pure aperto una finestra sul mondo che ha richiesto un lavoro continuo e consapevole durante tutto l’anno, ma non siamo qui per parlare di questo.

La questione è che ero a nemmeno la fine di gennaio, già tutto era cambiato e non avevo la più pallida idea di cosa stava per aspettarmi.

Mi sono imbarcata in un delizioso nuovo viaggio ricco di parole, fatti ed emozioni. Febbraio è stato niente male.

A marzo, il primo imprevisto.

Un attentato nella piccola U, la città in cui vivo; sul tram che porta a scuola mia figlia.

Un trauma non previsto, di cui non abbiamo mai più parlato. Una roba che ci ha lasciato senza fiato, e, a distanza di mesi, ancora senza il coraggio di riprendere quel tram.

Aprile e maggio sono passati in sordina, e a giugno è avvenuto un grande lutto in famiglia. Ce ne era già stato uno da quando vivo all’estero, anche quello importante, ma questo, questo era proprio diverso: questo era speciale. Questo è qualcosa che aspettavo, potrei dire quasi da una vita, in un certo senso.

Ero al lavoro, quel giorno. Era un sabato mattina. Ho ricevuto la notizia nel mezzo del turno, non c’era nessuno con cui poter parlare. La cosa è rimasta così, catturata nel tempo che ha ricominciato a scorrere.

Grazie a quell’evento, tra l’altro, quell’angolo di famiglia che era rimasto si è sgretolato, rivelando la grande tristezza dell’esistenza umana. Mah.

A luglio ed agosto, ho dormito, lavorato e dormito, in attesa di un settembre che è entrato in sordina e che si è rivelato esplosivo.

A settembre nella mia vita non succede mai niente, ma io lo considero come il mio gennaio: è il mese in cui penso e quello in cui ricomincio. È anche l’inizio della scuola.

Questo settembre in particolare segnava l’ultimo anno di liceo per mia figlia, che a febbraio ha fatto 18 anni, e un interessante esperimento di vita durato un mese, che mi ha permesso di studiare le mie fragilità.

Ho visto il tempo che passa. La mancanza di un secondo figlio. L’inconsistenza del mio futuro.

Tutte cose con cui non mi andava molto di fare i conti; ma stanno lì, non è che negandole scompaiono.

Non ne ho parlato.

Ho chiuso gli occhi e ho corso.

Fino a che, ad ottobre, non mi ha bloccato un muro.

Mia figlia si è improvvisamente ammalata e la mia vita si è sospesa.

È cominciato da allora un percorso discendente di fatica, buio e confusione, dove l’unica cosa certa era restare calmi e impassibili, mentre qualcuno mi faceva rendere conto che dovevo proprio essere una persona forte a vivere all’estero e a crescermi un figlio da sola.

Allo stesso tempo, il lavoro mi metteva alla prova con sfide, training, e orari impossibili, che accettavo perché non dovevo fermarmi, non potevo fermarmi.

A novembre rantolavo, cercando di non pensare.

A dicembre, respiravo poco.

Ma ancora viaggiavo.

Quando sono arrivata alla fine dell’anno, ero ormai esausta, esaurita in mille pensieri, divisa in 4 parti, tra il lavoro, la mia vita sentimentale, mia figlia, e il gruppo degli incredibili eventi accaduti. Ogni parte richiedeva il massimo dell’attenzione, e soprattutto l’ultima non aveva mai avuto voce.

Ho passato la giornata del 31 in silenzio, senza sapere cosa pensare.

E nella notte della transizione sono crollata.

Sono crollata sotto un flusso di pensieri a valanga, che facevano luce sulla caducità del tempo e la difficoltà ad abbracciare e tenersi le cose belle.

Il lavoro diventava piccolo, la voce di mia figlia si faceva sempre più lontana mentre diceva “sono felice per te, mamma, te lo meriti”.

Praticamente, ho riaperto il nuovo gennaio con la stessa domanda dell’anno prima.

Sto lavorando di notte, in questo periodo, che per me è l’equivalente di partire per un lungo viaggio, passeggiare in un bosco o fissare il mare: mi dà il modo, il tempo e lo spazio di pensare.

Perfetto, in un mese che sta scorrendo veramente lento.

diariogiornatatipo-PaolaRagnoli-iViaggidelladruida

Diario di una giornata tipo

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E insomma, come ogni persona di una certa età, diciamo pure come ogni vecchio la cui vescica non tiene più come a 20 anni, la scorsa notte mi sono alzata per andare al bagno. Erano le 6 meno 10.

Di norma, questo avviene molto prima.

Di norma, l’azione del camminare mi sveglia al punto da farmi andare in funzione il cervello e addio sonno.

Così, alle 6 mi sono alzata, mi sono vestita e alle 6:05 ero a svuotare la lavastoviglie della sera prima.

Alle 6:10 ho pulito la lettiera di little black monster, ovvero il diabolico gatto.

Alle 6:20 ho aperto le gabbie, diabolicogatto è andato a farsi il bidet sotto al tavolo esterno e io sono andata a pulire il giardino. Ho tolto i residui di erba tagliata, ho staccato le piante cattive e le ragnatele diventate troppo grandi per conviverci, o io o loro.

Alle 6:40 ho portato in strada il bidone della spazzatura, il martedì è giorno di raccolta.

Alle 6:45 ho preparato la colazione, per me e per mia figlia.

Alle 7:10 ho scritto una mail urgente su commissione, tra un caffè, un morso di ciambellone, l’oroscopo di Paolo Fox e una valutazione del meteo con la pargola per stabilire l’abbigliamento adeguato al clima.

Ho pulito la tavola e alle 7:40 sono entrata in doccia, perché dopo il giardino la cosa è obbligatoria pure se vai di fretta.

Già che c’ero ho pulito il bagno, fatto un veloce bucato, e alle 8:40 ho cambiato le lenzuola al letto.

Alle 9 avevo sonno. Quindi, secondo caffè (meritato).

Nel frattempo ho chiamato mia madre.

Alle 9:30 ho cominciato a lavorare. Ho riprogrammato un po’ di post, lavorato su un paio di articoli, fino alle 10:30, quando è arrivata la mia cliente – amica – insegnante di olandese. Con la quale ho lavorato fino alle 12:45, alla piacevole ombra di una tenda da sole.

Alle 12:50 ho finito di lavorare all’articolo lasciato a metà, riscaldato al microonde della pasta al forno (sacrilegio? Può darsi, ma la fame è fame) e ricominciato a lavorare, questa volta mediante consulenza al telefono (piacevolissima, peraltro. Sono fortunata).

Quando ho finito, ho lavato a mano un paio di bicchieri e altri due fregnetti, e alle 14:30 sono uscita per andare a lavorare (di nuovo).

Ho finito alle 17:30, sono andata a fare la spesa, ci ho impiegato un po’ perché non trovavo il mio yogurt preferito, e alla fine non lo ho trovato.

Alle 18:30 sono arrivata a casa e il bidone della spazzatura non era più in strada, ma al posto suo.

Alle 18:35 ho avuto il mio appuntamento telefonico – indovinate un po’? – di lavoro. Ma anche chiacchiera amica. Sono ancora fortunata.

Alle 19:30 mi sono seduta e finalmente ho ascoltato il resoconto della giornata di mia figlia.

Alle 20 ho scritto alla vicina per sapere se era stata lei a mettermi il bidone a posto: è stata lei.

Alle 20:10 sono andata a cucinare. Ho preparato tutto ciò che era nel frigo e che stava andando a male, ho preparato la cena, ho preparato il pranzo di domani per la scuola.

Ho apparecchiato, alle 21 abbiamo mangiato.

Alle 22:30 (eh sì,stavolta me la sono presa comoda) ho sparecchiato la tavola, mandato la lavastoviglie, finito di rispondere a un paio di mail di lavoro e scambiato ancora due chiacchiere con mia figlia prima della sua buonanotte.

Alle 23:30 mi sono seduta per scrivere questo pezzo. Volevo farlo con una colonna sonora giapponese di sottofondo perché oggi ho mangiato una caramella giapponese e ho pensato che quello è un posto molto strano, e volevo calarmi nel mood, ma il video che ho trovato mi ha distratto troppo, così alla fine ho scelto una colonna sonora ‘road trip’.

A mezzanotte meno cinque ho finito di scrivere. Ho riletto il pezzo e ho deciso di postarlo, in quella che tecnicamente è già la giornata di domani.

Qual è la morale di tutto ciò?

Questa:

meno male che non mi sono svegliata alle 3.

albero in fiore fotografato a ora di cena, in olanda ad aprile

L’orologio

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Sono le 20:40 di un qualunque giorno di aprile e la luce diurna che trapassa le finestre mi confonde e mi depista sull’orario della cena.

Cerco di immaginarmi Io, a Roma. A volte mi manca il mio divano. Mi è mancato recentemente; esattamente, tre giorni fa. Il suo colore sabbia. Il suo tessuto un po’ ruvido, il suo stile squadrato, che ben si intonava al salotto. Era un divano letto. Era un salotto armonioso, studiato con tanta cura e tanta passione. Ogni cosa aveva una tinta.

Tutta la casa aveva una tinta. È stato il lavoro di una vita, letteralmente, sistemarla.

A volte mi manca quella casa, terribilmente.

Ma oggi sono qui, con la luce diurna che mi depista e lo farà ancor di più quando arriveremo a giugno, e alle 23 ci sarà ancora luce e io non concepirò come in Italia possa già essere buio.

A volte sento di esserci, lo sento con ogni fibra del mio corpo.

A volte invece non sento niente. In parte perché mi sembra normale, in parte perché mi sembra automatizzato.

A volte mi sembra di non essermene mai andata e di stare in vacanza. A volte, di essere qui da una vita. A volte mi sembro chiusa in una parentesi o intrappolata dentro un muro. A volte mi sembro libera come una fenice a cui finalmente hanno aperto le gabbie.

Guardo con nostalgia alla mia prigione, non distinguendo più se prigione sia questa o quella vecchia.

Mi mancano le passeggiate al parchetto sotto casa, che mia madre ha sempre odiato chiamare parchetto. Il parchetto, il giacchetto… questo intercalare romano che non sopporta e che è stato il mio crescere.

Mi manca il paesaggio dalle finestre del salotto e della camera da letto. Il garage con le serrande dei box, i kundalini che facevano yoga e battevano il gong. Ricordo una mattina, non erano nemmeno le 8 e una musica ha cominciato a risuonare per tutto il cortile: sonno terminato.

Mi manca lo spazio strano della cucina con i suoi accessori, mi manca il bagno dipinto di arancione. Il caos artistico. Le mie tende viola scuro, il mio quadro di New York: i due oggetti che avevo voluto fortemente. Sono stata ferma 40 minuti a ragionare se volessi spendere 50 euro per quel quadro oppure no.

Mi manca l’emozione che provavo l’anno scorso in questo periodo, quando cominciavo a contattare le scuole e l’idea dell’Olanda si faceva concreta. Ogni tanto mi balzano al cuore quei momenti. L’aria che si respirava a Roma, la polvere delle strade del mio quartiere, quell’odore di stantio che stava avvolgendo tutto. Quel bisogno disperato di partire. Di scrollarsi di dosso la sensazione del vuoto. La stessa sensazione che ogni tanto appare qua, ma con piglio del tutto diverso, perché qui per il vuoto non c’è spazio – qui non puoi permetterti il lusso di sentirti morire.

Un anno fa ricevevo le prime mail di risposta, prendevo coscienza dei costi delle rette delle scuole internazionali. Accantonavo ogni fantasia e, a ogni settimana che passava, ridimensionavo le pretese, bruciavo i sogni e sperimentavo una nuova alternativa. Tutto, pur di andare.

Lentamente, dalla vita agiata e la proiezione dell’impossibile, mi spostavo sul piano della scelta consapevole e pianificata. Contavo i soldi. Vendevo i mobili. Vendevo tutto quello che avevo e in parte anche quello che ero.

Finii per sdraiarmi al centro di un salotto spoglio, da dove avevano appena portato via l’ultimo mobile, il mio tavolo bianco allungabile e un po’ incastrato con delle bellissime sedie in legno naturale non trattato. Mi lasciai lì, a fissare il soffitto, a sentire la musica, a tentare di fare una foto a 360° di quel che vedevo, ma non ci riuscii. Mi resta solo una polaroid nel cuore. La mia vita era ricominciata in quel salotto spoglio, base nuda piena di crepe, così tante che erano perfino sul soffitto. Poi si è spezzata. Ho ricominciato da terra.

Ogni cosa continua a scorrere, nonostante tutto. Nonostante quello che uno possa pensare o desiderare, nonostante le amate abitudini, la casa che mi possa mancare, i miei cuscini, il mio copriletto, le ore, il tempo per comprare quelle cose. I miei ricordi della mia vita. La stessa vita che oggi mi vuole a potare le piante in giardino e a guardarmi il corpo ogni volta che rientro in casa per controllare che non ci siano zecche su di me. Io, ragazza di città. Il venerdì è il giorno deputato alla botanica, me lo sono scelto io. Sto imparando un nuovo sistema per scaricare le energie, mi appassiona, mi massacra, mi stanca.

Quello che non riesco a cambiare è il mio orario spagnolo. Qui cenano tra le 18 e le 19, io cenerei anche a mezzanotte. Ma per ritmi familiari devo impormi una digestione in orario.

E devo impormi di guardare l’orologio per capire che ore sono, invece del tramonto del sole.

Io, che l’orologio non lo ho mai portato.

ore 20:19.

ciondolo con clessidra

Distanze

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Ci sono delle cose che con il passare del tempo non ti ricordi più. Semplicemente sbiadiscono, si appannano. Come l’umidità, sul vetro della tua camera da letto mentre fuori fa freddo, sul finestrino della macchina, dove da piccolo facevi disegnini seduto sui sedili posteriori, tuo padre guidava, tua madre parlava.Non è la distanza geografica a cancellare i ricordi e nemmeno ad annebbiarli. La distanza potenzia, amplifica, ingrandisce. Rende megafono ogni suono che arriva da lontano, ogni voce, messaggio, parola. Ognuna di queste cose si può tramutare facilmente in lacrima, e tornare allo stato primordiale di goccia. Di umidità. Quella che sbiadisce le porte che hai chiuso, tutte quelle che hai aperto e che hai lasciato con lo spiffero, quelle che hai rotto, quelle che hai sbattuto e quelle nelle quali ti eri chiuso le dita delle mani, contro le quali avevi urtato le dita dei piedi.

È il tempo la causa di tutto.

Con il suo lento-veloce passare, ci sono delle cose che fanno meno male. C’è una voce che credi di ricordare e ti sforzi di immaginarla nella tua testa. Daresti l’oro scavato e trovato con le tue stesse mani per certi momenti. C’è un abbraccio che vorresti ricostruire, perché lo senti vivo tutti i giorni, con te. L’intensità di un momento vissuto… se ne va anche quella, se il suo unico carnefice è lui.

Ma ce ne sono anche tante altre che non smettono di pungere. Le tieni lì, infilate nel cuscino. Le usi per fare leva sulle tue scelte, sono la tua fonte di ispirazione e giustificazione. Sono il tuo tormento e il tuo destino, la tua croce eterna senza delizia che ti insegue ovunque ti nascondi. Sono la tua persona.

Tempo, spazio, memoria: tutto è la tua persona.

hands_by_aschkelon

Quasi morte.

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La quasi morte ti fa vivere in un limbo. C’è che il tempo si sospende e non senti nulla. Non sai dove sei, pur essendo sempre negli stessi posti. Sei in attesa, di un cambiamento, di qualcuno che ti svegli da ciò che sai essere un incubo, ma che percepisci come distante. Perché fa così male che non può essere vero. Ti chiedi, a un certo punto, se faccia davvero così male, o se sia solo una percezione, alimentata dai discorsi degli altri, dai racconti che ti fai tu.

Quasi nessuna sensazione ti popola. Il corpo mangia poco, non hai fame e non ne senti il bisogno. Ti gira la testa ma non per debolezza, i piedi camminano ma non toccano terra: si muovono sull’ovatta. Qualcosa di etereo e impalpabile avvolge ogni tuo passo da quando ti alzi a quando parli, ti muovi, agiti le braccia, guardi il paesaggio. Fissi il vuoto. A volte una lacrima scende e ti riga e non ti importa se sei di fronte ad altri. Perché anche quella lacrima è il nulla, nella sensazione dell’assurdo che stai vivendo.

Ti dici che sei riuscito a vivere, finora, e che potrai farlo anche dopo. Ma hai la coscienza che ci sia qualcosa di più straziante. Qualcosa di più invadente, che ti buca le ossa, e la tua vita potrebbe essere molto diversa, la tua anima potrebbe perdersi per sempre.

Eppure nulla è eterno, soprattutto la vita. La cosa più fuggevole di tutte, quella a cui tutti ci affezioniamo e che non vorremmo lasciare andare, pur sapendo che prima o poi salterà.

Non siamo mai pronti, però.

E quando la quasi morte si avvicina alla morte, vai nel panico. Lo stomaco si chiude, vorresti cambiare il mondo, aver fatto altre scelte, dichiari finalmente di avere paura. Ti confessi.

Ma se la quasi morte ti riportasse in vita.

Allora sarebbe tutto uguale, e tutto diverso al tempo stesso. Quel senso di perdita svanirebbe e i tuoi soliti quotidiani pensieri tornerebbero ad essere protagonisti di te. Quel senso di perdita si sostituirebbe con quel senso di vita ritrovata, e cambiarla diventerebbe la nostra nuova, vera sfida.

Quel senso di vuoto sarebbe colmato, dalla comodità dei problemi conosciuti.

Quel senso di vuoto tornerebbe in chi è rimasto a guardare, impotente, logorato.

Quel senso di vuoto.

Ancora qui.

photo credits: Aschkelon, Hands

Alex Perez - Above the fears

Nell’attesa della domenica

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Stamattina non pioveva.
Era nuvolo, ma si sapeva già che le gocce avrebbero cominciato a scendere. Si avvertiva nell’aria, si sentiva nel profumo della terra che si incrocia all’asfalto.
Le macchine lo rigavano, lasciandone intravedere una sottile polvere di catrame che invadeva i polmoni e i nostri respiri.
Stamattina ho sbagliato fermata dell’autobus per la prima volta. E’ un tratto che faccio spesso, guardavo bene le solite indicazioni ma ho sbagliato comunque. Ero sovrappensiero.
Sono tornata indietro, sono scesa di fronte all’ospedale e sono andata a fare la consueta fisioterapia.
Oggi la gamba mi fa molto male, camminare è difficile più del solito.
E, in barba al dolore, quando sono uscita ho sbagliato tragitto, di nuovo. Questa volta l’intero autobus. Ne ho scelto uno nella convinzione che avrei comunque raggiunto il posto di lavoro.
Mi sono ritrovata in un’altra parte della città; sono dovuta tornare indietro.
Sono arrivata molto tardi.
Ne consegue che oltre al sovrappensiero vorrei essere altrove.
Ho desiderato andarmene, senza rendermene conto.
Ma tentativo di evasione vs. doveri = 0 a 10.
E quando mi è stato fatto notare che stavo chiaramente dando segnali di fuga, ho provato a immaginare dove stavo pensando di andare. In quale parte di mondo. Quanto lontana da qui. Cosa succederebbe se io una sera, semplicemente, non rientrassi; se io una mattina, semplicemente, non mi presentassi a lavorare. Sarei probabilmente licenziata, dovrei andare a suonare alla porta di qualcuno che avesse voglia di accogliermi e darmi rifugio, mi ritroverei ben presto senza soldi. Stravolgerei la vita di mia figlia.
Non si può fare.
Solo un’altra volta, in passato, mi sono ritrovata smarrita per strada. Lei era piccolina di pochi mesi, io uscii di casa con il passeggino, girai un po’ di angoli e a un certo punto non fui più in grado di rientrare: per un paio di minuti non sapevo dov’ero. Né sapevo dov’era casa.
Poco tempo dopo la lasciai per sempre.
Nel mio tragitto di oggi, nel punto in cui mi sono persa nel limbo, ho avuto modo di farmi infastidire dal vociare degli umani sui mezzi pubblici che ci fanno sentire tutta la loro vita al telefono come se stessero parlando dal bagno di casa loro.
Sarà che io mi sento così riservata, ma che bisogno avete di urlare tutto per strada.
Oggi è ancora lunedì.
Un lunedì perpetuo che si propagherà a elastico per i prossimi giorni a venire. Un moto ondoso che potrà portare a disgregazione. Una bolla spaziotemporale in cui le emozioni resteranno sospese, tra le colpe, i sensi di colpa e lo sguardo vacuo. Mentre io, a tratti, non sento niente.
In attesa di quell’unica scossa che mi prende ogni singolo osso e tessuto del corpo e mi fa sentire bene, e viva.
In attesa della domenica.

photo credits: Alex Perez – Above the fears

tocatchawind_byStanOd

Stasera c’è vento

E’ venerdì. E lo faccio spesso. Scrivere di venerdì, intendo, ma come lo sto facendo ora non lo facevo da molto tempo e, ve lo posso confessare: sì, mi mancava. Molto. Questo contatto piccolo con voi, quando mi leggevate in due, tre, forse quattro ed ero già contenta. So che voi pochi ci siete sempre, ci vogliamo bene, ed ora c’è anche altra gente. Ed a dispetto della folla, io ho bisogno di una mia vecchia intimità. Di quella tipica mia delle serate nel fine settimana, da sola a scrivere, a volte a bere qualcosa, a volte fumando ma sicuramente a pensare, per poi tornare a parlarne con voi. Io da questa parte, voi dall’altra del foglio.. aaah, ci riuscivamo benissimo. E facevamo grandi discorsi, a volte pubblici altre volte privatamente, nei giorni a venire, quando con qualcuno di voi ci si incontrava per la strada.

E stasera sono qui a godermi uno di quei momenti, ma con più gente ad ascoltarmi che è arrivata. Sistemo le sedie, vi faccio spazio, datemi il cappotto, perché alla locanda della Druida si sta comodi; e non si sente freddo.

Per chi non lo sapesse: siete in un punto di passaggio tra un viaggio e l’altro, e questa è la vostra taverna del buon riposo.

Stasera vi dedico il mio spazio, qui, usatelo se volete suggerire argomenti, raccogliere idee, domande, o sorrisi(i miei preferiti – quelli veri!), se volete condividere la ricetta di una torta di frutta o raccontare cosa state facendo stasera e cosa invece avreste voluto fare.
Perché questa è la chiave più richiesta per le porte del venerdì: cosa avreste voluto fare.
Eh ma invece siete lì.

Vi lascio qualche minuto con una canzone speciale, perfetta stasera per noi, per voi. Mi raccomando: fate play, chiudete gli occhi e, dopo un paio di giri, avrete cominciato a capire già qualcosa in più.

PLAY 

Io nei primi minuti sono librata in volo, sopra un vasto campo, dentro un cielo chiaro.Sentite le note? Tendete l’orecchio ancora: dopo gli archi.. eeeh sì. Ora la conoscete. Lei è’ il vostro vento, forse. E’ quello che io stavo aspettando, e che in parte è arrivato. E’ quello che mi porterà. Mi sta per portare, mi prende e mi sta per portare, il vento del cambiamento.

Ditemi voi dove andate, dove eravate stasera e dove avreste virato. Io vi aspetto, pronta per parlare ancora una volta con voi.

photo credits: StanOd, To catch a wind

paris-cruise-angelreich

Alexandre Bridge

(201111192357)

Sono macchine che corrono, sfrecciano tra le luci spente della città. Sono binari intersecati di vite affettive e di pensieri come autoscontro, sono risate che echeggiano nelle onde del fiume che ci taglia in due. Sono visioni oblique di paesaggi filmati con una super8, musica di passaggio che entra nelle vene, si piazza sugli impulsi elettrici del sistema nervoso e si trasmette penetrando in ogni cellula. Sono scariche che emettiamo nei movimenti, ogni cinque minuti. Sono sere in cui vogliamo uscire anche solo per correre, guardare gli altri, lasciarci, attoniti, assorbire dalle immagini vorticose intorno a noi, lasciarci assopire mentre vi fissiamo con sguardo catatonico. Sono momenti lunghi, che seguono giorni simpatici, progetti cose fatti lettere idee. Che precedono sonni disturbati, in attesa del quando. Che si intersecano in assurde gocce di lacrime, che non hanno senso di esistere ma che ci sono, qui, ora, grandi, lucide, tristi sempre.

photo credits: Angelreich, Paris Cruise

pescatore trascina barca al tramonto, bianco e nero

Viaggio a fondo

(201108161152)

Te lo ricordi il primo bacio? Io sì. Ricordo il giorno, e vagamente anche l’ora. Era alla stazione, rubato. Incapace di resistere, tu che lo hai dato, io che lo ho preso. Seguiva 24 ore strane, immerse nell’acqua e nei dialoghi, con gli occhi che parlavano da soli. Una notte a separare, fatta di una luna che illuminava le onde, fatta di stelle che illuminavano il fondale del mare e dei nostri desideri.

Te la ricordi la prima volta? Io sì. Ricordo il giorno e anche l’ora. Era molto tempo dopo. Un incedere eterno, o cortissimo, passato a cercarci con un elenco di scuse figlie della banalità. Quando è stata, era contornata da un aura diventata surreale per l’attesa. Il sottile mangiarci. L’esplorazione salita lenta, in mezzo alla strada, mentre qualcuno commentava ‘turisti’. Non poteva sapere che non eravamo turisti. Che non eravamo in vacanza. Che non eravamo disinteressati all’ambiente. Eravamo solo maledettamente attratti da noi.

Te lo ricordi il primo sguardo? Io sì. Ricordo il giorno, e forse anche l’ora. Era oggi. Un oggi di qualche tempo fa. Una stretta di mano incerta, un educato presentarsi e non ci siamo più lasciati. Nonostante tutto. L’ora, a pensarci, non ha importanza. E’ sempre stato un conteggio vano, quando fatto insieme.

Te lo ricordi un dettaglio? Io sì. Ricordo un cappello. La prima cosa che ho notato, dopo il sorriso nello sguardo.

E ricordo una barca. Procedeva lenta, ma sicura. Il suo viaggio ci sfilava davanti agli occhi, che avevano appena cominciato a schiudersi, dopo un lungo sonno.

“Il tempo, che unità di misura strana. Vola sempre, con te.”

photo credits: Lucio Barbuio, senza titolo