(201706151309)
Stamattina mi hanno mandato questa:
Immagino che abbiate premuto Play, per sentire di cosa si tratta.
Se non lo avete fatto, andate ora – zum, premete e lasciatevi accompagnare dalle note, mentre continuate a leggere.
Avrete un’idea di dove sono mentalmente e di dove mi ha mandato il mio interlocutore, con questo link del mattino.
Ogni brano è un pensiero, un sentimento, un’emozione.
Ci sono stati d’animo da pop, stati d’animo da rock, stati d’animo da metal, stati d’animo da latina, and so on.
Oggi, 15 giugno 2017, alla vigilia del mio primo anniversario di vita olandese, il genere musicale di questo brano mi ricorda che:
Io questa Olanda la sento come un esperimento dell’ora. A quanti dico che non penso di restare qui per il resto della vita, gli si sgranano gli occhi.
Il passare delle stagioni è soggettivo e, allo stesso tempo, condizionato dall’ambiente al quale il nostro corpo è abituato.
Non trovo così scioccante la presenza della luce diurna, tanto atipica rispetto all’Italia ma c’è di peggio, vi assicuro.
L’Olanda mi piace molto più di quel che avrei creduto possibile; e di posti ne ho vissuti tanti.
Bisognerebbe rendere obbligatorio il soggiorno all’estero a chiunque, come un esame, una materia a scuola: pim, gente buttata così, con una manata in mezzo alle scapole che li spinge, a tutti quanti. C’è da imparare a palate, e il mondo alla fine sarebbe un posto migliore.
Nonostante le manate in mezzo alle scapole, alcuni restano ottusi come un lavandino intasato. Ehh, là non c’è nulla da fare, ci consoliamo con la speranza che siano una minoranza.
Mi sono divertita a passeggiare nella neve, questo inverno, ma non è il mio.
Io non sono una da montagna; non sono nemmeno una da campagna. Io sono una da caldo/mare. Sono cresciuta al mare, conosco a memoria gli effetti della salsedine, il beneficio dello iodio e il suono dell’incresparsi delle onde. I baretti sulla spiaggia. La birra e le patatine mentre i piedi sono affondati nella sabbia. Quella stessa sabbia che ti ritrovi nelle mutande e sul pavimento di casa. I negozi di canotti gonfiabili in fila indiana sullo stradone principale. L’impossibilità di coltivare un giardino se sei di fronte alla costa. Il mare d’inverno e il suo grigio che comanda. Il mare comanda. Decide, inghiotte, ricopre e risputa. Separa e unisce terre. Fa apparire i sogni, perché questi sono l’unica cosa che non ingurgita mai.
Comunque io sono anche una da città, quella che puzza di catrame e che scorre dai finestrini dei mezzi pubblici. È possibile, dunque, che mi serva una città grande dotata di mare.
Ma sono anche una da scenario deserto. E’ altrettanto probabile, allora, che mi serva un nulla, vicino a dell’acqua, due piante e una grande tecnologia a portata e al bisogno.
Per ora sto ancora cercando. Ma comincio a sospettare che non troverò mai, nel senso canonico del termine.
Perché semplicemente non devo trovare qualcosa di concreto. È possibile che il mio tesoro sia proprio l’essere ricercatore.
La vita è viaggio.
E dai, via libera a tutte le banalità che vengono in mente dopo questa affermazione. Ma riflettiamoci un solo minuto: la vita è una cosa in movimento. Viaggia per forza di cose, anche se non vuole, anche se non volete. Sta a voi decidere come: non trovate?
La vita è viaggio, ma questo viaggio non è nulla senza la poesia.
La poesia è il suo ingrediente segreto. È l’aggiunta di sale qb alle ricette. È quella sensazione che non sai spiegare ma che ti fa sentire tanto bene, in certi momenti della giornata. Che so, tipo come stai dopo una chiacchiera con il tuo caro amico, per esempio. Oppure è quell’aperitivo mentre guardi il tramonto. È discutere con qualcuno del più, del meno, e pure del senso della vita. È un raggio di luna che filtra tra i rami secchi. È il pranzo della domenica. È l’abbraccio della mamma, il bacio di papà. È stare seduti sulle scale a parlare per ore di cosa ti è accaduto quel dato giorno. Sono i figli quando vogliono passare del tempo con te. È il ballo improvvisato per cinque minuti sulle note di una canzone che va. È osservare un dipinto a lungo e in silenzio. È un attore che parla con te quando recita. È studiare le pieghe morbide che il marmo ha assunto sotto l’incredibile scalpello di alcuni scultori.
Io ho visto la poesia e so che, quando la trovi e la ignori perché ‘ci penserai dopo’, quel dopo potrà significare tardi.
Si può inseguire la chimera e anche raggiungerla, si possono scalare montagne e abbattere i nemici, triturare tutti al proprio passaggio, lavorare senza pausa per il successo, e non avere la più pallida idea di cosa sia il successo per davvero.
Il successo è un pacchetto di sale.
Lavorazione immensa per un consumo rapido, ma non la vedi mai in quest’ottica. Valore intrinseco maggiorato, se impari a conoscerlo e a dosarlo qb.
Senza il sale qb, la vita è un viaggio a cui manca e mancherà sempre qualcosa.
—
(201512271942)
Si stanno diffondendo gli auguri per un nuovo anno. Nemmeno è finito questo, che siamo tutti pronti a chiuderlo in gran fretta scattando sull’ultima fascia, perché ogni volta ci lamentiamo di quanto gli ultimi mesi siano stati brutti, di quanto ogni volta sia stato peggio, di quanto siamo pronti ad aspettare il nuovo e a vedere cosa c’è dietro l’angolo, anche se poi il coraggio di affrontare le svolte siamo in pochi ad averlo.
Allora, io gli auguri ve li faccio da oggi, e ve li faccio nell’unico modo che conosco. Scrivendo.
Io vi auguro di avere il coraggio di voltare pagina, a partire dal primo gennaio.
Vi auguro di trascorrere la notte del 31 senza rimorsi né rimpianti, che siate da soli o nel mezzo di una festa di paese.
Vi auguro di essere certi delle scelte che fate, per evitare di sentirvi male dopo.
Vi auguro di scegliere con oculatezza le compagnie che frequentate, per migliorarvi ogni giorno di più.
Vi auguro di rimboccarvi le maniche per mettere in pratica il progetto che è chiuso nel cassetto da sempre.
Vi auguro di attivare l’orologio biologico, che vi consentirà di buttare quello che avete al polso e di apprendere che la misura del tempo è solo nella vostra testa.
Vi auguro di non badare alle convenzioni che impongono schemi contraffatti di relazioni sociali.
Vi auguro di trovare il coraggio di dire ciò che pensate, senza ferire gli altri e senza castrare voi stessi, per godervi le ore della vita al meglio.
Vi auguro di essere capiti, perché vorrà dire che siete stati chiari.
Vi auguro di non usare violenza. Ricordando che a volte la violenza è anche silenzio.
Vi auguro di avere la libertà di essere onesti con voi stessi, capaci di tirarvi fuori dalle vostre stesse trappole.
Vi auguro di rendervi conto che abbiamo tutti tempi diversi, porte di entrata diverse e diverse porte di uscita e, se deciderete di muoverne una, vi auguro di stare attenti alle vostre mani. E se poi vi schiaccerete qualche dito, vi auguro di guarire in fretta.
Vi auguro di non buttarvi alla cieca nelle braccia del primo che capita, avendo il giudizio di capire se vi sta spolpando vivi.
Vi auguro di rendervi conto che niente di quello che avete fatto si può considerare tempo perso, perché per voi è stata una fase di cui avevate bisogno, anche se agli occhi degli altri potrà essere apparsa come uno spreco di energie.
Vi auguro di affiancarvi a persone che vi vogliano bene.
Vi auguro di amare intensamente, vivere l’emozione dei primi incontri, le attese di un flirt, la passione bruciante negli occhi di uno sconosciuto che accende la vostra anima senza sapere perché.
Vi auguro di non trovarne la risposta, perché è nella fusione silenziosa di quel momento che si nasconde la magia di ogni spiegazione.
Vi auguro di provare il colpo di fulmine, che vi rende vivi e vi solleva un angolo della bocca per deformarlo in un sorriso.
Vi auguro di imparare che la routine può essere più bella dell’imprevisto.
Vi auguro di essere amati senza paure, di avere qualcuno accanto che vi faccia tesoriere dei suoi più intimi segreti, che non abbia paura di piangere di fronte a voi, che sia pronto a lasciarsi andare piuttosto che a lasciarvi andare, e che quando glielo chiedono dica di voi ‘non ho mai amato nessuno così’.
Vi auguro di viaggiare e di perdervi abbastanza da sapere dove state andando. Perdersi è indispensabile per trovare la strada giusta.
Vi auguro di vedere con il cuore.
Non ci sono molte altre cose che vale la pena tenere a mente.
Semplicemente per questo anno, ma forse anche per i prossimi, io vi auguro di vivere. E di essere vissuti.
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(201511270941)
La quasi morte ti fa vivere in un limbo. C’è che il tempo si sospende e non senti nulla. Non sai dove sei, pur essendo sempre negli stessi posti. Sei in attesa, di un cambiamento, di qualcuno che ti svegli da ciò che sai essere un incubo, ma che percepisci come distante. Perché fa così male che non può essere vero. Ti chiedi, a un certo punto, se faccia davvero così male, o se sia solo una percezione, alimentata dai discorsi degli altri, dai racconti che ti fai tu.
Quasi nessuna sensazione ti popola. Il corpo mangia poco, non hai fame e non ne senti il bisogno. Ti gira la testa ma non per debolezza, i piedi camminano ma non toccano terra: si muovono sull’ovatta. Qualcosa di etereo e impalpabile avvolge ogni tuo passo da quando ti alzi a quando parli, ti muovi, agiti le braccia, guardi il paesaggio. Fissi il vuoto. A volte una lacrima scende e ti riga e non ti importa se sei di fronte ad altri. Perché anche quella lacrima è il nulla, nella sensazione dell’assurdo che stai vivendo.
Ti dici che sei riuscito a vivere, finora, e che potrai farlo anche dopo. Ma hai la coscienza che ci sia qualcosa di più straziante. Qualcosa di più invadente, che ti buca le ossa, e la tua vita potrebbe essere molto diversa, la tua anima potrebbe perdersi per sempre.
Eppure nulla è eterno, soprattutto la vita. La cosa più fuggevole di tutte, quella a cui tutti ci affezioniamo e che non vorremmo lasciare andare, pur sapendo che prima o poi salterà.
Non siamo mai pronti, però.
E quando la quasi morte si avvicina alla morte, vai nel panico. Lo stomaco si chiude, vorresti cambiare il mondo, aver fatto altre scelte, dichiari finalmente di avere paura. Ti confessi.
Ma se la quasi morte ti riportasse in vita.
Allora sarebbe tutto uguale, e tutto diverso al tempo stesso. Quel senso di perdita svanirebbe e i tuoi soliti quotidiani pensieri tornerebbero ad essere protagonisti di te. Quel senso di perdita si sostituirebbe con quel senso di vita ritrovata, e cambiarla diventerebbe la nostra nuova, vera sfida.
Quel senso di vuoto sarebbe colmato, dalla comodità dei problemi conosciuti.
Quel senso di vuoto tornerebbe in chi è rimasto a guardare, impotente, logorato.
Quel senso di vuoto.
Ancora qui.
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photo credits: Aschkelon, Hands
(201511161035)
La parola di quest’anno è: cambiamento.
Cambiare, che siamo stati travolti da eventi personali, o da vicende dell’umanità.
A tutti coloro che continuavano ad andare avanti senza domande, o senza risposte, o senza coraggio, o senza chiarezza, questo tempo ci sta chiedendo di cambiare prospettiva. Viaggio. O punto di osservazione.
Questo tempo ci sta mettendo alla prova; per questo tempo abbiamo cominciato a cambiare la posizione delle carte, riconducendole forse lentamente a quelle che sono state previste dal destino per noi.
E per chi non crede nel destino, riconducendole a una nuova disposizione. Ne siamo praticamente obbligati, per scelta attiva o per scelta subita.
Ciò che viene dopo è visto come un male perché spaventa, l’ignoto fa sempre questo effetto. E’ un male, se giocato senza capire il significato e senza cogliere le opportunità. E’ un bene, se prendiamo i fatti come l’occasione di una finestra sul nostro mondo. A volte non si può fare diversamente.
Mentre scrivo, ci sono persone che hanno perso qualcuno. Ci sono altre persone, come me, che stanno perdendo una parte di se stesse, o della loro funzionalità. Ce ne sono altre costrette immobili, costrette prima di tutto ad affrontare il loro dolore, fisico e morale.
Quello che le accomuna tutte è, appunto, il cambiamento. Non importa che fosse voluto o sia diventato imposto.
E di fronte a questo cambiamento, le scelte sono due: bloccarsi, o andare.
La terza opzione non esiste, mai.
Andare.
L’incredibile opportunità di capire cosa o chi vogliamo, cosa è importante per noi, cosa conta nella vita, o almeno cosa non vorremmo più.
E’ come se stessimo avendo una seconda occasione, che ci aiuti a svegliarci dal nostro torpore ovattato di protezione finto-morbida.
In questa lista di nuove scelte, non dovrebbero esserci proprietà, beni immobili, soldi, stipendi, carriere lavorative; non dovrebbe esserci spazio per ricominciare come se nulla fosse.
Questa lista dovrebbe essere composta dal coraggio della vita ritrovata, dalla voglia di uscire il doppio di prima, dalla voglia di ridere, sorridere, e divertirsi fino a che il nostro destino / Dio / il caso ce lo concederà.
Ma certamente dovremmo smettere di sprecare il nostro tempo. Dovremmo dire quella cosa, dovremmo chiamare quella persona, dovremmo fare quel passo. Dovremmo smettere di stirare i sentimenti con il ferro da stiro caldo e bruciarli, e dovremmo lasciarli piuttosto stesi al sole, permettendo a qualcun altro di prendersene cura.
A chi giova restare nella propria casetta a porta chiusa? Pensiamo che così ci difenderemo, oggi; ma domani sentiremo la mancanza del non aver mai preso aria e di non aver mai fatto entrare quella metà, proprio quella lì. Ci pentiremo.
Il cambiamento spaventa, la felicità fa paura, anche perché la felicità non esiste dal momento che prima o poi viene spezzata dalla fine della vita stessa. Ma vivere senza tentare la felicità dovrebbe fare molta più paura, se si ha un minimo di coscienza lucida.
Meglio un giorno da leone che cento da pecora, dicevano. Meglio un giorno felici che mai, dico. Prendendo tutto quel che viene dopo quel giorno: il bene e il male. Questa è un’antica formula rituale dei matrimoni, che molti non avranno mai la possibilità di sentire davvero dentro, ma ‘nel bene e nel male’… è così che va la vita. E’ così perché sì, perché funziona così.
Qualunque altro giorno abbia in serbo la vita per noi, dovremmo viverlo vivendo, abbracciando, amando. E ricordandoci di dirlo.
Non fermiamoci.
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Postilla. Le persone che hanno cambiato il mondo sono state tante, poche quelle che lo hanno migliorato. Ma non crediate che non possiamo fare nulla. Se non tutti possiamo parlare alle masse, tutti possiamo parlare al singolo, e cambiare una vita – e qui penso a chi parla con bambini e ragazzi, ad esempio. Quel singolo, a sua volta, potrà cambiare un’altra persona. Questo si chiama effetto farfalla.
E tutto ritorna nel movimento che genera il vento del cambiamento.
Adesso è ora.
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photo credits: ThisisTheLife2905, Change the world
(201511101200)
Sveglia, ancora una volta. La prospettiva delle 4 ore e mezza di sonno, forse 5 se va bene. Se vado io, mi svegliano comunque gli incubi o i pensieri che hanno l’abitudine di aprirmi in due.
Una vita rivoltata, la mia, quella di questi ultimi mesi, ma andando a ritroso di 11.
Scegliere. Andare verso A o verso B.
Non andare, è dove vorrei, in sere come queste. Voglia di riuscire, chiedere per il primo biglietto, urlare un vaffanculo mentale a tutti e non girarsi. A quelli che ti tranciano le famose ali. A quelli che gridano e ti sbatacchiano. A quelli che ti usano. A quelli che non ci sono tanto ti capisco/mi capisci/famo a capisse.
Sveglia, ancora una volta, pregando che un soffio ti porti via, che una fetta di aria ovattata ti avvolga e ti faccia scomparire riducendoti a nebbia, che la pioggia ti sciolga come si comporta l’acido.
Sono i primi germi delle notti che ti vedrebbero star sveglio anche fino alle 4, non importa se il giorno dopo devi rialzarti alle 6.
Sveglia, ancora una volta, per le emozioni che hai provocato, forse ti mancavano?, e ora sei di nuovo così vivo che non capisci più qual era la vita vera, se quella su monorotaia sempre dritta, o questa che guida su strada veloce senza fermarsi al rosso.
L’odio, l’intolleranza, il disagio, il fastidio che diventa fisico, il senso di inappetenza, la voglia di farti un po’ male; sono questi stasera gli amici della tua compagnia.
Il rifiuto di andare a dormire, solo perché non vuoi più svegliarti il giorno dopo sapendo di dovere riaffrontare tutto quanto daccapo. Sarebbe meglio una giornata unica di tempo dilatato dedicata a smaltire, e poi finalmente puff forever off.
Ombre di figure dal passato oggi si materializzano in alta concentrazione ed è la prova che la vita è ciclica, e ciò che non risolvi te lo ritrovi davanti, e può succedere anche dopo 5 anni. E, a quel punto, devi smettere di scappare e devi affrontare il tuo: qualunque cosa succeda, qualunque possa essere il finale.
Nella tipica notte in cui tutto è possibile, potrei cambiare le mie regole, per chi le capisse.
Potrei sovvertire il mondo, cominciare a camminare a testa in giù.
Chiudere per sempre i telefoni, e tornare alla lettera e al campanello.
Potrei rompere vetrate per vedere se è vero che scaricano lo stress, e restare a guardare i frammenti che cadono, affascinata dal luccichio di vetro e sole.
Poi, fissare attratta il sangue che crea rivoli lungo i polsi, come quelli della Natura nei suoi fiumiciattoli.
Potrei piangere per le prossime 6 ore.
Potrei dormire. Ah, dormire.
Potrei arrivare sbriciolata alla fine della notte ed all’inizio del mattino. Ma a chi cambierebbe?
In fondo, io sono una solitaria.
(201510051539)
Stamattina non pioveva.
Era nuvolo, ma si sapeva già che le gocce avrebbero cominciato a scendere. Si avvertiva nell’aria, si sentiva nel profumo della terra che si incrocia all’asfalto.
Le macchine lo rigavano, lasciandone intravedere una sottile polvere di catrame che invadeva i polmoni e i nostri respiri.
Stamattina ho sbagliato fermata dell’autobus per la prima volta. E’ un tratto che faccio spesso, guardavo bene le solite indicazioni ma ho sbagliato comunque. Ero sovrappensiero.
Sono tornata indietro, sono scesa di fronte all’ospedale e sono andata a fare la consueta fisioterapia.
Oggi la gamba mi fa molto male, camminare è difficile più del solito.
E, in barba al dolore, quando sono uscita ho sbagliato tragitto, di nuovo. Questa volta l’intero autobus. Ne ho scelto uno nella convinzione che avrei comunque raggiunto il posto di lavoro.
Mi sono ritrovata in un’altra parte della città; sono dovuta tornare indietro.
Sono arrivata molto tardi.
Ne consegue che oltre al sovrappensiero vorrei essere altrove.
Ho desiderato andarmene, senza rendermene conto.
Ma tentativo di evasione vs. doveri = 0 a 10.
E quando mi è stato fatto notare che stavo chiaramente dando segnali di fuga, ho provato a immaginare dove stavo pensando di andare. In quale parte di mondo. Quanto lontana da qui. Cosa succederebbe se io una sera, semplicemente, non rientrassi; se io una mattina, semplicemente, non mi presentassi a lavorare. Sarei probabilmente licenziata, dovrei andare a suonare alla porta di qualcuno che avesse voglia di accogliermi e darmi rifugio, mi ritroverei ben presto senza soldi. Stravolgerei la vita di mia figlia.
Non si può fare.
Solo un’altra volta, in passato, mi sono ritrovata smarrita per strada. Lei era piccolina di pochi mesi, io uscii di casa con il passeggino, girai un po’ di angoli e a un certo punto non fui più in grado di rientrare: per un paio di minuti non sapevo dov’ero. Né sapevo dov’era casa.
Poco tempo dopo la lasciai per sempre.
Nel mio tragitto di oggi, nel punto in cui mi sono persa nel limbo, ho avuto modo di farmi infastidire dal vociare degli umani sui mezzi pubblici che ci fanno sentire tutta la loro vita al telefono come se stessero parlando dal bagno di casa loro.
Sarà che io mi sento così riservata, ma che bisogno avete di urlare tutto per strada.
Oggi è ancora lunedì.
Un lunedì perpetuo che si propagherà a elastico per i prossimi giorni a venire. Un moto ondoso che potrà portare a disgregazione. Una bolla spaziotemporale in cui le emozioni resteranno sospese, tra le colpe, i sensi di colpa e lo sguardo vacuo. Mentre io, a tratti, non sento niente.
In attesa di quell’unica scossa che mi prende ogni singolo osso e tessuto del corpo e mi fa sentire bene, e viva.
In attesa della domenica.
photo credits: Alex Perez – Above the fears
Qualcuno mi ha detto che se non hai una meta è impossibile perdersi.
Se solo fosse facile.
Se solo fosse facile, ci alzeremmo ogni mattina senza preoccuparci di dove stiamo andando.
Mi alzerei ogni mattina con la testa leggera, scalza, libera, senza preoccuparmi dei ciottoli e dei tagli sotto i piedi.
Uscirei dal letto, mi godrei il profumo del caffè che sale, andrei a guardare il mondo, senza sapere se devo realmente girare a destra o a sinistra, guardare dritto, sopra o sotto, nord o sud.
Ogni tanto uno sguardo indietro; perché non è vero che non devi guardare al passato mai. Il passato va visto, per sapere quanto hai percorso, cosa hai cambiato e se hai fatto progressi.
Uno sguardo avanti.
Senza chiedersi perché.
Senza chiedersi se.
Facendo le domande man mano che arrivano.
Senza attendersi risposte.
A un certo punto, devi lasciare che la vita segua il suo corso.
A un certo punto, devi lasciarti vivere.
Semplicemente, vivi.
––
Photo credits: “Life” by Ekbs
(201506200303)
Lo penso da sempre. E alcuni momenti, lo penso di più. Come stasera, quando nei fili del mio udito sono passate le battute di chiusura del Miglio Verde.
Le persone sono importanti.
Perché dopo che abbiamo tolto tutto, i vari non-ho-tempo, ci-sentiamo-dopo, ti-richiamo, sono-stato-molto-impegnato, che cosa ci resta?
Sì lo so, è il ritmo della vita, della parte egoista di ogni essere umano, che ognuno di noi almeno una volta ha messo in scena.
Sì è vero, dobbiamo morire tutti e non sappiamo se noi saremo i primi, forse fortunelli, o gli ultimi, quelli straziati che rimangono soli alla vecchiaia mentre tutte le persone alle quali abbiamo voluto bene non ci sono più, quindi alla fine che importanza hanno gli affetti ed evviva il viaggio.
Ma avete mai dovuto dire addio a qualcuno che se ne stava andando di fronte ai vostri occhi? E’ straziante.
E avete mai dovuto dire addio a qualcuno che se ne è andato così rapidamente da non lasciarvi il tempo di spiegare quella frase del giorno prima? E’ straziante.
E se togliamo tutto, i vari non-ti-scrivo-perché-non-so-cosa-dire, ora-non-ho-voglia, domani-lo-faccio, basta-sono-offeso, con-te-non-gioco-più, che cosa ci resta?
Se non hai nemmeno la buona salute, che cosa resta?..
Restano le persone.
Quelle che danno al tuo viaggio un senso, e che rendono tutto quel non-ho-tempo prezioso come una gemma, perché senza di loro vivremmo in maniera diversa e, forse, avremmo poco da condividere di una preziosità senz’altro meno scintillante, a quel punto. Quelle che ti consigliano, che non sono mica facili da trovare. Quelle che ti ascoltano, che del genere discreto sono rare e se vuoi andare sul sicuro devi pagare lo psicoterapeuta.
Tutto è-importante? Allora nulla lo è.
Ci vorrebbe una scala, una bella scala di legno, magari dipinta di bianco che fa tanto prato in fiore e casa di campagna in primavera. E dovremmo usare questa scala come un contenitore dove riporre ciò che ci sta più a cuore. Magari sistemiamo tutto anche in ordine di importanza, in cima il nostro irrinunciabile, e via a scendere. Quanti lo-faccio-dopo e non-ho-tempo avete messo, e quante persone avete sistemato?
Prima tutto era importante, ora sulla scala avete dovuto dare un ordine.
Il mio prevede le persone.
E quando lo spazio si farà vuoto, prima o poi, non avrò rimpianto di non averci messo un si-è-fatto-tardi. Perché tanto queste espressioni il buco lo avrebbero lasciato comunque, o non si sarebbero presentate per occuparlo.
Resterebbe una cosa da fare, dopo aver ordinato correttamente i gradini da percorrere e coloro con i quali fare quei passi: tentare di reggere le persone per non farle cadere.
Mi dicono che sia vietato usare la colla e altri stratagemmi simili, potrebbero causare irritazione -dermatologica e umorale. No anche ai piedi inchiodati: è sconveniente. Ci sono dei sistemi magici, però, ho sentito parlare di druidi, maghi e botteghe, roba da alchimisti, qualcuno racconta di amore, qualcuno di pazienza.. qualcuno di sordità.. ma forse quest’ultimo era un burlone 🙂
Ognuno deve trovare il suo metodo per poter creare la sua scala personale, che non è e non sarà mai meno verde di quella del vicino, prima di tutto perché è bianca e poi perché ci sono i nostri non-lo-so e i nostri pilastri. Tutta davvero farina del nostro sacco.
Adesso tocca a voi. Che scala vi fate?Io voglio quella senza gli avrei-potuto.
“E con le persone? So’ due etti signò, che faccio, lascio?” “Lasci lasci.. che le persone sono importanti.”
(201503180145)
È veramente tardi. Continuo ad avere la sveglia alle sei e un quarto. Non la metto d’abitudine; soprattutto ora che sono stata esonerata da ogni attività, potrei dormire. La metto per mia figlia. Mi alzo, le preparo la colazione, mi prendo cura di lei svegliandola dolcemente, la convinco a fare un piccolo sorriso mattutino. Tutte le mattine, nel tragitto che separa il letto dalla porta, tengo lezioni sul volersi bene, parlarsi, sorridersi e sorridere alla vita. Ogni tanto non funziona, il meccanismo si inceppa: lei forse apre il telefono legge qualcosa su qualche chat o semplicemente la luna è in quadratura e non trova le chiavi di casa, ed esce adombrata; pronta a far crescere quell’angoletto scuro per tutta la giornata, ma che scarica solo una volta tornata a casa dalle lezioni. E quella che comincia da lì, dal pranzo alla cena, può diventare una delle giornate più lunghe dell’anno. Dove tutto si autoricostruisce sbagliato. E aspetti che finisca, chiedendoti come sarà la lezione del mattino seguente.
E dire che la vita mi ha offerto una grande opportunità, in questo periodo a cavallo tra la prima e la seconda metà del mio percorso. Mi sto impegnando per sfruttarlo a farlo fruttare con lei. Con lui. Con me. Su questa ultima parte sono proprio poco pratica, anzi direi decisamente incapace. Ho continuato a lavorare, pensare al lavoro, sognare il lavoro, invece di pensare a me. E poi, questi ultimi giorni è successo qualcosa.
Ma torniamo indietro. Sono a casa da metà dicembre, per un incidente. Sì lo so, sono passati tre mesi (precisi, oggi 18 marzo), e sono ancora a casa. E non riuscirò presto, ancora. Per chi ancora non lo sa, mi sono fratturata tre ossa del ginocchio e sono in attesa di intervento. L’incidente in verità c’era stato all’inizio del mese, ma vivere in Occidente significa vivere al motto di “non posso fermarmi, devo fare tante cose, sono impegnatissima (e il conseguente “non ho avuto tempo di chiamarti”). Cosa c’è di così importante che non si può fermare? Niente, vi assicuro. Perché se niente vale come quel tutto che avete, tutto vale niente senza la salute. Da metà dicembre ad oggi ho attraversato vari stadi: domanda (perché?) –vabbeh (lo stadio del vabbeh è il mio preferito) – rabbia (perché?) –solitudine – ricerca (confusione) – sonno – studio (sono ferma, ne approfitto per imparare qualcosa di nuovo) – film film film – solitudine – stupore – rabbia – pianto – paralisi (“dici sul serio?”…) – piccole felicità -panico.
Gli stadi ci sono stati per cercare un senso a quello che è successo, a questo stop che mi è stato imposto improvvisamente. È questa la domanda che mi sono fatta più spesso, da quando tutto è iniziato. Ho cercato il significato dei gesti di cattiveria che ho subito gratuitamente facendo alcuni della mia malattia una discriminante. Ho cercato il significato dell’abbandono che ho vissuto da parte di altri che non mi aspettavo, ed ho finito per ridiscutere il concetto di amicizia. Ho cercato il senso di famiglia, e la vita mi ha ricordato che va creata, costruita, giorno dopo giorno, e tutti devono fare la loro parte o la costruzione di un’ora si sfascia in un minuto. Ho cercato il senso della vita. Ho cercato il silenzio.
Ma che mi cerco, che non cammino.
Allora ho cercato dal divano un’altra strada, un cambiamento, una nuova prospettiva.
E ho capito che, arrivati a metà del nostro viaggio sulla terra, bisogna muoversi e cambiare, se si ha almeno un sogno nel cassetto ancora non tentato. Ecco, poi qui scatta la fase del “sì ma non ho i mezzi” e questo riduce drasticamente la possibilità del sogno. Torna lo stadio della paralisi. Partono gli altri sogni, quelli notturni, con i militari che occupano la città, bombardano tutto, scendono in strada ad uccidere i sopravvissuti, diffondono virus letali. Tu fai parte della resistenza partigiana. Quella che sai che morirà, ma che vuole soccombere con onore. Trattenere le lacrime è difficile. Rilasciare il coraggio è probabile. Sapere di essere destinati alla morte ed è solo questione di tempo è inevitabile.
Torna lo stadio del panico e, a ritroso, percorre le tappe precedenti – la rabbia, la ricerca, lo stupore, il vabbeh.
Ma questi ultimi giorni è successo qualcosa, ve l’ho detto. La lamina di ghiaccio trasparente che ricopre la paura di vivere si è incrinata. La ricerca dei perché sta perdendo la sua forza. Ho capito che certe cose accadono e non puoi farci niente. Ho capito che da soli non si gestisce niente e ci vuole una compagnia sufficientemente forte accanto, altrimenti oltre ai problemi tuoi ti ritrovi pure i problemi del vicino, e non sempre il vicino lo puoi scansare. E tu finisci morto. Splat.
Stanotte sono ferma, sospesa. Senza voglia di mettermi a letto, senza interesse a dormire, solo tento di sfuggire alla notte che tante volte mi ha tenuto compagnia abbracciandomi con il suo silenzio eloquente. Penso che mia figlia ha una piccola scritta sulla porta della sua camera. Dice “little things make me happy”. Non sono sicura che la legga. Ma di certo le piccole cose vanno godute, altrimenti muori. Di rancore.
Tra qualche ora tutto ricomincerà, voi leggerete che saranno le 8, o forse le 11, di fronte al caffè, sul bus che vi porta al lavoro, o starete rubando dieci minuti di pausa in ufficio. Io mi sarò alzata, o forse starò riposando. Tornerò a pensare alle mie domande, e poi ad evitarne qualcuna, travolta dal ritmo quotidiano del fai-pensa-produci. Tornerò a pensare alle cose che ho capito.
Sulla storia del senso della vita ci starò ancora lavorando.
—
Photo credits: The Walk by Burcumbaygut
Music: Agnes Obel, Riverside