tattoo ace of spades

Demone artista

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La questione di Tinderen e delle tossine è un po’ il tema dominante di questo luglio.

Ho attraversato un mese complesso, che mi ha vista aumentare la mia produzione artistica per la prima volta dopo anni. E questo comunque è un bene.

Ci sono arrivata facendo un giro molto largo, partito nel 2020.

Durante il fermo dell’anno scorso, c’è stata una persona che mi ha fatto riflettere su me stessa.

Ero già avanti nel mio viaggio, ma c’erano degli aspetti che ancora non riuscivo ad affrontare nella maniera giusta per smantellarli, ed altri di cui non ero davvero cosciente.

Questa persona, parlando di sé e facendomi parlare di me, mi ha aiutata inconsapevolmente. Non ha detto cose particolarmente originali che qualcun altro non avesse mai detto. I concetti sono sempre quelli, a volte. Ma si è recettivi in maniera diversa, per via dello scambio di energie che si crea tra persone.

Con alcune, il collegamento è tale che pure se ti dicessero ‘carciofi’, tu ci troveresti un senso molto profondo.

Con alcune persone ti senti più a tuo agio. Di alcune persone ti fidi, o ti fidi di più.

Alcune persone sai che non ti tradiranno, o almeno così dovrebbe andare – poi, la vita accade -, perché sono le stesse persone che si raccontano con te, e con te mettono la loro anima a nudo, tirando giù le barriere della mancanza di fiducia, sentendosi finalmente liberi.

Alcune persone entrano a far parte di te e tu non ti sei nemmeno accorto come, quando è successo, perché, né quanto ti stiano aiutando a riflettere e crescere.

Atteggiamenti e abitudini dell’altro che danno forma ai tuoi lati oscuri, a un tratto sono lì di fronte a te, e hai due scelte: rifiutare di nuovo tutto a prescindere, solo perché lo hai sempre fatto e non conosci altra strada, o ammettere ciò che è altro da te, diverso da te, l’ombra di te, e accettare di cominciare a scavare, in un viaggio verso il basso molto doloroso.

Penso a emozioni incompiute, che hai messo a bollire lasciandole attaccare sul fondo della pentola e non avendo il coraggio di avvicinarsi più, perché la puzza è troppa.

Sembra tutto molto complicato?

In realtà non lo è. Fatemi riportare il concetto a un livello semplice:

Ci sono persone che ti aiutano ad aprire gli occhi sulla tua stessa vita e ti danno quella spinta necessaria a uscire dal tuo torpore e affrontare gli ultimi demoni rimasti.

Tra i demoni rimasti, c’era quello della creatività, sempre lasciata là, buttata in un angolo, un po’ maltrattata, poverina.

Accettare di essere un’artista, in un mondo – quello contemporaneo – che di fatto espelle il concetto prima ancora che sia nato, è stato il durissimo passo successivo.

Con la ripresa del mondo, e la necessità di portare avanti la vita così com’era, il demone artista ha sviluppato tutto un suo piano B. Sviluppato, abbozzato, ma ancora leggermente offuscato. Fino a questo luglio. La persona che mi ha aiutata in questo viaggio complice fino alla fine.

E anche qui, ho avuto due scelte: chiudermi e tornare indietro a ciò che conoscevo già e avevo già fatto mille volte, o mettere in pratica ciò che avevo imparato nell’ultimo anno, liberare le tossine, prendere il demone artista per le corna (non lo so, ce le ha le corna?) e approfittarne per cavalcarlo. Ora o mai più.

Si dice che alcuni artisti producano meglio quando soffrono. Altri fanno molto di più quando sono felici. Io non rientro nella seconda categoria. Ma va bene, ognuno sfama il proprio demone come meglio crede, come meglio sa fare. Il mio sta mangiando pensieri, gocce di sale, parole, foto, disegni su carta e sulla pelle. Sta mangiando note musicali. Si sta mangiando anche le ore notturne, e va a fare il rettile al sole.

Ero su youtube, l’altro giorno, e l’occhio mi è caduto su un commento sotto a un video:

“and that’s why I get excited when artists start dating, when they break up they release some fire tracks”.

Mi ha fatto sorridere un bel po’. Ho pensato che è cinico, ma anche tanto vero.

Artist demon

The thing with Tinder and toxins is the dominant theme of this July.

I had a complex month, during which my art production increased for the first time in years. I actually got here by taking a very wide loop, started in 2020.

During last year’s detention, there has been a person who helped me make some self-reflection.

I was already well along on my journey, but there were some aspects that I still couldn’t deal with properly, and some others that I wasn’t totally aware of.

This person talked and made me talk, and he unknowingly helped me. He didn’t say anything that was particularly original. The basic concepts are always the same, but one is receptive in a different way, depending on the exchange of energies that happens between people.

With some of them, the connection is such that even if you were told ‘artichokes’, you would find very profound meaning in it.

You feel more comfortable with some people. You trust them.

Those won’t cheat on you, or so it should be – then, life happens -, because they’re the same people who get their soul naked with you, putting down the walls of trust issues, finally feeling free.

Some become a part of you and you don’t even know how it happened, when, why – or how much they are helping you to reflect and grow.

Attitudes and habits that are the shape of your dark sides, suddenly become real in the other person, and you have two choices: to reject again regardless because that’s what you always do, or to admit what is other than you, and start doing your shadow work.

I am talking unfinished business, complex emotions that you’ve put to a boil by letting them stick to the bottom of the pot and not having the courage to get closer because the smell became too strong.

Does this all sound complicated?

It really isn’t. Let me bring the concept back to a basic level:

There are people who help you open your eyes and give you the boost you need to get out of your slumber and face the last remaining demons.

Among the demons left was creativity, always left there, thrown in a corner, a little mistreated, poor creature.

Accepting to be an artist, in a world – the contemporary one – which in fact expels the concept even before it’s born, was the very hard next step.

With the world opening back up, and the need to carry on with life as it was, the artist demon developed a whole plan B. It was sketched, but still slightly clouded. Until this July – the person who helped me in this journey, complicit to the end.

And again, I was left with two choices: shut myself up and go back to my usual past, or set myself free, put into practice what I had learned the last year, release the toxins, take the artist demon by the horns (does he have horns?) and ride this opportunity. Now or never.

It is said that some artists perform better with suffer. Others do much more when they are happy. I don’t fall into the second category. But that’s okay, everyone feeds his artist demon as they see fit. Mine is eating thoughts, drops of salt, words, photos, drawings on paper and on the skin. He is eating musical notes. He is also eating night hours, and going reptile in the sun.

I was on youtube the other day, and my eye fell on a comment under a video:

“and that’s why I get excited when artists start dating, when they break up they release some fire tracks”.

It made me smile. I thought it’s cynical but very true.

sdr

Questione di tossine

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Mettersi la sveglia alle 6 per andare a correre alle 6 e mezza di mattina, per molti è una cosa folle.

Pure dal mio punto di vista. Eppure oggi lo ho fatto. Non ho nemmeno dormito granché, l’altra notte. Mi sono svegliata come al solito alle 4, ho cominciato a pensare a cose, dopo le 5 mi sono riaddormentata.

Ci sono volte che alle 5 faccio colazione per disperazione – una roba regolare, con caffè e tutto – e poi mi riaddormento per un altro paio di orette.

Ma non stamattina.

Quando la sveglia è suonata alle 6, avrei pisolato volentieri un altro po’, ma poi ho fatto due calcoli al volo: c’è bel tempo e, dopo che, nel pomeriggio, avrò finito di lavorare, vorrò andare a correre o vorrò prendere il sole? Più probabile prendere il sole, in una nazione – Formaggiolandia – che il sole lo vede principalmente nei dipinti di Van Gogh, e che trascorre i mesi estivi sotto l’acqua.

E corsa alle 6 e mezza sia.

Dunque, c’eravamo: il mio corpo, un uccellino, un piccione, un corvo, un gatto rosso, un gatto nero, e il mio cervello.

L’uccellino non faceva niente.

Il piccione girava in tondo senza motivo e il gatto rosso girava nella direzione opposta, ma chiaramente con passo da caccia – istinti di geolocalizzazione obnubilati.

Il corvo strillava al gatto nero.

Il gatto nero fissava l’alto di un albero dal fondo, studiando le creature nascoste tra i rami.

Il mio cervello registrava il vuoto intorno, il silenzio, il piacere del fare le cose quando è l’alba, il fatto che a Formaggiolandia d’estate alle 6 c’è la luce delle 10, le persone a dormire, i miei passi veloci sull’asfalto, il mio fiato ansimante, due cani che facevano chiasso in un attico con la finestra aperta.

Notava che tutti quegli animali – i gatti, i volatili – non farebbero mai quelle cose con gli umani intorno; l’assenza delle nostre figure li porta ad essere liberi e ad agire seguendo l’istinto.

Sempre il mio cervello registrava che il mio corpo era stato in grado di alzarsi alle 6 solo per andare a correre.

Cioè volere è potere.

Io lo so che questa frase fa scattare una serie di meccanismi di difesa infiniti, ma mettiamola così: nella sua base, il concetto corrisponde al verosimile.

Da quando sono stata male l’anno scorso, ho deciso che rivolevo i miei polmoni indietro, e mi sono impegnata ogni giorno per riaverli. Li ho educati a respirare di nuovo, poco alla volta, man mano ho aumentato la frequenza del passo, e poi della corsa.

Lentamente, ho cominciato a levare le protezioni dal mio corpo – i tremila strati di vestiti, il cappello, le fasce antisudore, le protezioni alle ginocchia.

Le ginocchia hanno smesso di farmi male.

Nei mesi sono caduta, e ho corso lo stesso, tra slogature e sangue. Mi sono messa in testa che il mio benessere veniva prima.

Tutto questo mi ha portato lentamente a cambiare dieta, perdere peso, lasciare andare vecchie abitudini, far pensare a mia madre che il mio nuovo look fosse la conseguenza di un torrido segreto. Ma l’unica verità è che questa perdita di zavorra è stata totale: si è applicata al corpo come alle persone, e si è riflettuta all’esterno.

Potrei dire che sia stata quasi una questione di eliminazione di tossine. E per non dimenticarlo, me lo sono scritto sulla finestra.

Alla questione della zavorra verso le persone, ci sto ancora lavorando. Lasciare andare. Rispettare i miei sentimenti e le mie emozioni, se qualcun altro non lo fa. Validare tutto come parte di una vita, non accettare gaslighting, scaricare le energie di chi non vuole fare un passo per migliorare. Smettere di giustificare ogni singolo “volere è potere non si applica nel mio caso”.

Certo, ci sono circostanze che vanno al di fuori del nostro controllo – prendete le frontiere chiuse per esempio, sono forse parente di Biden, che posso risolvere questa cosa? Ma come prendiamo tutto il resto, quello sta a noi. Le diete, le sveglie, le corse. I sogni, gli obiettivi.

La mia perseveranza nella corsa ha puntato il dito contro me stessa, stamattina, quando mi sono detta: “posso alzarmi alle 6 tutti i giorni perché voglio impegnarmi a migliorare le funzionalità del mio corpo, posso fare la stessa cosa se davvero voglio impegnarmi in un qualsiasi altro progetto. E i risultati arriveranno, qualunque essi siano, se continuo a investirci il mio tempo”.

Ecco, semplice così.

selfie da sotto, per una volta

Di questi anni cosa resta

di questi anni che cosa resta,

se questi ancora si svolgono con le loro carni lacere al fianco, cercando di nasconderne l’usura, la vergogna e gli errori.

di questi anni cosa resta,

sul tavolo del salotto mentre facciamo pranzo, e i telefoni si impossessano sempre di più delle nostre dita, il nuovo quoziente intellettivo globale sempre più in basso, la nostra capacità di pazienza sempre più stretta, con la sua voce sempre più in alto che cerca di giocare a fare la grossa.

di questi anni cosa resta, e cosa resterà di questi passi, passati a smontare le tende per lavarle, a pulire maniacalmente le mattonelle di casa, a lucidare le maniglie dei mobili. tutti gusti all’italiana, di cose che facevo da italiana, che tradivano, ogni volta, uno “sto male devo pensare”, che mi ricordano mia madre;

che mi ricordano che ho chiesto vacanze e non ho ancora comprato il biglietto. forse andrà solo lei, la piccola che questo anno se lo merita. e io, madre, vorrei che andasse, per farla tornare a volare;

che mi ricordano che non ho vacanze, non ho programma, e quel che c’era non c’è più. e anche se lo avessi, non si sentirebbe.

cosa resta di questi anni,

se la cara compagnia sparisce?

forse una rosa del deserto.

forse un impalpabile alito di vento.

forse una croce.

di questi anni che cosa resta,

di queste cene, di questi anni, di questi pomeriggi vuoti non apprezzati, e noi pellegrini andavamo a inseguire le onde per cercare anche solo una gioia, pur sapendo, che era effimera, solitaria, un po’ buia, dimessa, non caciarona, sorniona.

una gioia non dedicata; una gioia non attenta.

una gioia un po’ sbadata.

ma erano quei giorni, quei giorni che ti chiedevi che cosa facciamo, perché ci siamo, perché non chiami, perché non ami, perché non ci sono gli amici, perché non viene nessuno, perché sono tutti partiti, perché chi ti pensa non lo dice, perché chi lo dice te lo sbatte in faccia, con cattive intenzioni.

erano quei giorni, quei giorni in cui non ci sono i biscotti, e tu ti chiedi che fine hanno fatto. non sono pronta a perdere in biscotti. non sono pronta a perdere te.

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My year in review

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A bit more than a year ago, something happened that made my life take a new direction.

I was out for dinner, explaining to my ex how much I had learned the lesson, while he replied that he would never, ever follow me anywhere.

An exciting start in January, you’ll probably think. At least, that’s what I thought.

I had just come out of a tough year I was still recovering from. The new one just started, and the “who cares” mood already took place. That was awesome.

I found myself obsessively thinking for a solid twenty days, “What am I doing?”.

“I wouldn’t follow you” was growing inside me.

So, one morning, a little less than a year ago, I woke up and out of the blue everything was clear.

By sitting and waiting, I was losing opportunities, people, future memories. I was losing my life.

I let it go.

I let it go and, as a consequence, I immediately saw what I had before my very eyes and never noticed: the new direction mentioned in the first line of this article.

Side note, this new direction also has a name, and he also opened my eyes to the world throughout the year, but we are not here to talk about this, now.

The thing is that it was not even the end of January, everything had changed already and I had no idea what was waiting for me.

I embarked on a journey full of words, facts, emotions. I must say, February was not that bad.

In March, the first unexpected thing happened.

A terroristic attack in small U; on the tram that my daughter takes to school.

An unforeseen trauma, which we never talked about again. It left us breathless, and still without the courage to take that tram again.

April and May passed quietly, and June welcomed a big death in the family. It’s not the first time that a family death happened since I’ve been living in Holland, but this one was different: this one was really special. This one is something I was waiting for a lifetime, somehow.

I was at work, that day. It was a Saturday morning. I got the news in the middle of the shift; there was no one to talk to. Things remained like that, captured in time.

Besides, due to that death, a piece of family crumbled, revealing the great sadness of human existence.

In July and August, I slept, worked and slept, waiting for a September that went quiet and proved explosive.

In September, nothing ever happens in my life, but I usually consider it as my personal January. This September, in particular, marked the last year of high school for my daughter, who turned 18 in February, and an interesting month-long life experiment, which allowed me to study my frailties.

I felt the passing of time. The lack of a second child. The inconsistency of my future.

All things that I didn’t really feel like dealing with; but I cannot make them disappear either.

I just couldn’t talk about any of it. I closed my eyes and ran.

A lot.

Until a wall stopped me in October.

My daughter suddenly got sick and my life paused.

Since then, it was all a descending path of fatigue, darkness, and confusion, and the only certainty was being calm and impassive, while a few people made me realize how strong I am living abroad and raising a kid all alone.

At the same time, work put me to the test with challenges, training, and impossible shifts, which I accepted because I didn’t have to stop. I couldn’t stop.

In November, I was gasping, trying not to think.

In December, I didn’t breathe much.

Yet, I was still traveling.

When the end of the year finally came, I was totally exhausted, divided into 4 parts: work, my love life, my daughter, and the group of life events happened, each part required maximum attention; the fourth above all had never had a voice.

I spent the 31st in silence, with no clue what to think.

And on the night of the transition, I collapsed.

I collapsed under a stream of avalanche thoughts, which shed light on the caducity of time and the difficulty in embracing and keeping beautiful things.

My job became small; my daughter’s voice became more and more distant as she said: “I’m happy for you, you deserve it”.

I reopened the new January with the same question as the year before.

Right now, I’m working night shifts, which for me is the equivalent of going on a long journey, walking in a forest or staring at the sea: it gives me the time and space to think.

And that’s so perfect, for a month that is running incredibly slow.

Poco più di un anno fa, è successa una cosa che ha fatto prendere alla mia vita una nuova direzione.

Ero a cena fuori, che spiegavo al mio ex quanto avessi capito dell’attesa e del tempo, mentre lui mi rispondeva che mai e poi mai mi avrebbe seguito da qualche parte.

Un inizio di gennaio esaltante, penserete. Io lo ho pensato.

Ero appena uscita da un anno forte, da cui ancora mi dovevo riprendere. Il nuovo anno cominciava, e “who cares” sembrava già regnare primario, dando l’impronta ai futuri mesi.

Sono rimasta a pensare per buoni venti giorni. A che stavo facendo, cosa avevo di concreto in mano, cosa speravo di ottenere.

“Io non ti seguirei” mi stava maturando dentro.

Così, una mattina di poco meno di un anno fa, mi sono svegliata che avevo capito. A stare seduta ad attendere, mi stavo perdendo occasioni, persone, futuri ricordi. Mi stavo perdendo la vita.

Ho lasciato andare.

Ho lasciato andare e il primo effetto di questo gesto è stato vedere ciò che avevo davanti agli occhi e di cui non mi ero mai accorta: la nuova direzione citata nella prima riga.

Tra l’altro, questa nuova direzione ha anche un nome, e ha pure aperto una finestra sul mondo che ha richiesto un lavoro continuo e consapevole durante tutto l’anno, ma non siamo qui per parlare di questo.

La questione è che ero a nemmeno la fine di gennaio, già tutto era cambiato e non avevo la più pallida idea di cosa stava per aspettarmi.

Mi sono imbarcata in un delizioso nuovo viaggio ricco di parole, fatti ed emozioni. Febbraio è stato niente male.

A marzo, il primo imprevisto.

Un attentato nella piccola U, la città in cui vivo; sul tram che porta a scuola mia figlia.

Un trauma non previsto, di cui non abbiamo mai più parlato. Una roba che ci ha lasciato senza fiato, e, a distanza di mesi, ancora senza il coraggio di riprendere quel tram.

Aprile e maggio sono passati in sordina, e a giugno è avvenuto un grande lutto in famiglia. Ce ne era già stato uno da quando vivo all’estero, anche quello importante, ma questo, questo era proprio diverso: questo era speciale. Questo è qualcosa che aspettavo, potrei dire quasi da una vita, in un certo senso.

Ero al lavoro, quel giorno. Era un sabato mattina. Ho ricevuto la notizia nel mezzo del turno, non c’era nessuno con cui poter parlare. La cosa è rimasta così, catturata nel tempo che ha ricominciato a scorrere.

Grazie a quell’evento, tra l’altro, quell’angolo di famiglia che era rimasto si è sgretolato, rivelando la grande tristezza dell’esistenza umana. Mah.

A luglio ed agosto, ho dormito, lavorato e dormito, in attesa di un settembre che è entrato in sordina e che si è rivelato esplosivo.

A settembre nella mia vita non succede mai niente, ma io lo considero come il mio gennaio: è il mese in cui penso e quello in cui ricomincio. È anche l’inizio della scuola.

Questo settembre in particolare segnava l’ultimo anno di liceo per mia figlia, che a febbraio ha fatto 18 anni, e un interessante esperimento di vita durato un mese, che mi ha permesso di studiare le mie fragilità.

Ho visto il tempo che passa. La mancanza di un secondo figlio. L’inconsistenza del mio futuro.

Tutte cose con cui non mi andava molto di fare i conti; ma stanno lì, non è che negandole scompaiono.

Non ne ho parlato.

Ho chiuso gli occhi e ho corso.

Fino a che, ad ottobre, non mi ha bloccato un muro.

Mia figlia si è improvvisamente ammalata e la mia vita si è sospesa.

È cominciato da allora un percorso discendente di fatica, buio e confusione, dove l’unica cosa certa era restare calmi e impassibili, mentre qualcuno mi faceva rendere conto che dovevo proprio essere una persona forte a vivere all’estero e a crescermi un figlio da sola.

Allo stesso tempo, il lavoro mi metteva alla prova con sfide, training, e orari impossibili, che accettavo perché non dovevo fermarmi, non potevo fermarmi.

A novembre rantolavo, cercando di non pensare.

A dicembre, respiravo poco.

Ma ancora viaggiavo.

Quando sono arrivata alla fine dell’anno, ero ormai esausta, esaurita in mille pensieri, divisa in 4 parti, tra il lavoro, la mia vita sentimentale, mia figlia, e il gruppo degli incredibili eventi accaduti. Ogni parte richiedeva il massimo dell’attenzione, e soprattutto l’ultima non aveva mai avuto voce.

Ho passato la giornata del 31 in silenzio, senza sapere cosa pensare.

E nella notte della transizione sono crollata.

Sono crollata sotto un flusso di pensieri a valanga, che facevano luce sulla caducità del tempo e la difficoltà ad abbracciare e tenersi le cose belle.

Il lavoro diventava piccolo, la voce di mia figlia si faceva sempre più lontana mentre diceva “sono felice per te, mamma, te lo meriti”.

Praticamente, ho riaperto il nuovo gennaio con la stessa domanda dell’anno prima.

Sto lavorando di notte, in questo periodo, che per me è l’equivalente di partire per un lungo viaggio, passeggiare in un bosco o fissare il mare: mi dà il modo, il tempo e lo spazio di pensare.

Perfetto, in un mese che sta scorrendo veramente lento.

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Sheldon e il Natale

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Ho passato un bel Natale.

Al terzo dicembre sono tornata a casa.

L’ultimo passato in Italia non era stato granche’, era il 2015, ero pressoche’ sola. E quello prima mi sentivo sola lo stesso.

Quest’anno e’ stato diverso.

E’ stato in famiglia, 24 e 25.

Ed e’ stato strano.

Nello stesso momento in cui sapevo di essere a casa e mi sentivo comoda con chi avevo accanto, percepivo l’essenza fluida e vanesia del concetto del Natale e la sua quasi inutilita’ nel festeggiarlo.

Mi sono sentita Sheldon in un episodio di Big Bang Theory: completamente fuori luogo, immersa in un acquario addobbato a festa con pesci consapevoli e felici.

Mi sono sentita piccola e diversa.

Un po’ grinch.

Un po’ arrabbiata con me stessa.

Tutto quel che c’era avrei potuto averlo in un qualunque altro giorno, perche’ aspettare il Natale?

Perche’ fare regali imposti dalla tradizione? Che tradizione e’ mai questa?

Perche’ farsi gli auguri di Natale, che cosa significa?

Sheldon mi guardava curioso spiandomi da dietro una poltrona del salotto, mentre mi facevo queste domande. Io sentivo il suo giudizio, e la sua vocina che mi sussurrava “allora lo vedi che il mio personaggio non e’ strano?”.

Sentirsi Sheldon a Natale e’ quantomeno inquietante.

Non ho perso il cosiddetto spirito natalizio.
Ho comprato bicchieri di plastica con disegni a tema e li ho usati fin dal primo del mese.

Ho fatto due alberi.

Mi sono addobbata come un terzo in occasione del pranzo aziendale.

Mi sono travestita da umpalumpa lappone in occasione del pranzo famigliare.

Ma non riesco a concentrare questo spirito in soli due giorni.

Non riesco a concepire la parola ‘auguri’ e il gesto ‘tieni questo e’ il tuo regalo’.

E comunque di pacchetti ne ho fatti tanti.

Sara’ una cosa di quest’anno.

Sara’ che la mia vita e’ cambiata.

Sara’ che io sto di nuovo cambiando.

Vorrei solo che fosse Natale ogni giorno nello spirito di comunione che ci dovrebbe tutti accompagnare come individui.

In qualunque parte del mondo.

Per qualunque razza o religione, senza alcuna distinzione.

Vorrei ci fosse quel calore sempre.

Vorrei che nessuno se lo dimenticasse, mentre divora il tacchino con la messa in sottofondo e ciarlando dei politici, e poi tirando via per strada di fronte a chi chiede l’elemosina quando esce per la passeggiatina digestiva, mentre cammina risucchiando il fondo della coca cola comprata al mc donald’s.

Sheldon ne faceva una questione di mancanza di prove scientifiche.

Io ne faccio una questione di chi siamo – dove andiamo – qual e’ il senso della nostra vita.
Anyways, in ogni caso oggi io e lui siamo accomunati.

Mentre ci penso, mi sento sempre piu’ strana e mi guardo da fuori, cercando di non giudicarmi troppo ma due domande me le faccio lo stesso.
Mi siedo sulla poltrona, la stessa da cui Sheldon mi osserva.

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Che ti fa stare bene.

I colori.
L’aria calda del vento e dell’intimità.
La sensazione di stare facendo una cosa giusta.
La foto del cielo al tramonto.
Tu.
La delicatezza dell’essere.
Un palloncino che vola di mano in mano.
Il piumone.
I capelli che fluttuano nel sole.
Una scatola di pastelli.
Il mercato del sabato mattina.
Il crepitio del camino.
L’albero di Natale di notte.
Tè e biscotti.
La ricerca della paella senza pesce, che è come trovare un ago in un paglialio.
La spiaggia in città.
La spiaggia in città, impagabile.

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Mille frammenti di luce

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Avete presente quelle giornate che sanno di fine inverno, con quel vago sapore di inizio primavera che comincia ad affacciarsi?
 
 
Ecco, ieri era una di quelle così.
 
Nonostante il calendario dica ‘fine settembre’, e l’unico sapore che dovrebbe comparire è quello dei dolci che di lì a poco porteranno al Natale, la giornata sapeva proprio di dopo-letargo.
 
C’era un insolito calore.
 
I 20 gradi dichiarati dalle previsioni meteo sono apparsi veramente, anche se non possono riscaldare come i venti gradi di giugno, per ovvie ragioni di tipo astronomico.
 
Ma l’astronomia non tiene conto del calore all’interno dei corpi e di come quei raggi di sole possano toccare le emozioni.
 
Il solito vento, a tratti, pungeva, ma qualcuno osava comunque le maniche corte. Senza rendermene conto, io stessa indossavo colori brillanti e molto più adeguati all’estate – bianco, sabbia, arancio.
 
Come è tipico dell’essere umano, il sole porta ad uscire dalle tane; e allora, ieri, tutti si sono riversati all’aperto.
 
I bar accanto alla stazione erano letteralmente gremiti di gente. Passavo e li ho osservati.
 
Qualcuno si è accorto dello sguardo che si posava su di loro ma si è subito rigirato a fare conversazione.
 
Era, in effetti, anche difficile non notarmi, visto che l’arancio che indossavo era del cappotto.
 
Comunque, passavo e li ho osservati.
 
Gruppi di lavoro alla fine del meeting; coppie di amici; dipartimenti d’ufficio interi. Seduti o in piedi. Sorrisi o grandi dialoghi, le facce di chi si liberava della giornata. Gente che arrivava, gente che andava; l’abbigliamento da lavoro li etichettava tutti. C’era la cravatta, c’era il completo blu, c’erano le cuffie da fonico al collo, c’era la ventiquattrore.
 
Poco più in là, il solito gruppo di skaters impegnava il piazzale con esercizi di stile, mentre l’amico fotografo li riprendeva dall’alto con il suo potente teleobiettivo.
 
Le scalinate contenevano personaggi seduti a godersi il sole in fronte.
 
Il tramonto stava cominciando. La luce abbracciava tutti, scendendo dolcemente.
 
È stato allora che mi ha assalita di nuovo la malinconia.
 
La perfetta sensazione da fine inverno della giornata si è miscelata alla perfetta sensazione della nostalgia da lontananza, accendendo la miccia della solitudine.
 
Solitudine, tuttavia, che bruciava alla luce del colorato sole, regalandomi uno stridente contrasto interiore.
 
Mi sono infilata nel bus e ho proseguito per i miei giri, lasciandomi cancellare la memoria dagli impegni previsti.
 
Quando mi sono trovata sulla strada del ritorno, il sole era ormai quasi del tutto tramontato.
 
L’ultimo raggio sparava sul grande palazzo della prestigiosa banca; si irradiava in mille frammenti di colore, dispersi anni luce.
 
 

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Sentirsi a casa. Pensieri confusi in ordine sparso

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C’è stato un tempo in cui pubblicai la foto che vedete qui sopra, con questa didascalia:

La mia casa non è in nessuna città.La mia casa è un’altra testa che ragiona come la mia testa. Ecco. Non è il dove. E’ il come, con chi.

La avevo legata ad uno scritto, questo qui. La foto era stata scattata a Lignano, nell’agosto del 2010. Lo scritto era di qualche mese dopo. Citavo Erasmo, citavo Rotterdam.
Pensavo l’Olanda lontana anni luce, anzi direi del tutto incalcolata – non era affatto nei miei programmi; eppure, in perfetto stile “nulla capita a caso”, questa nazione e il titolo di quell’articolo nel corso del tempo hanno assunto un altro sapore.
Non voglio nemmeno provare ad infilarmi in un’interpretazione del destino.
Il punto è che in quell’articolo parlavo di casa. In quella foto parlavo di casa e oggi, nel 2018, precisamente stamattina, mi sono di nuovo fatta quella domanda: qual è casa.

Già, qual è casa?

Cos’è che la definisce?
All’ennesimo giro di boa e cambio di appartamento, sono di nuovo che ci penso, e una risposta continuo a non averla.

Ho visto e visitato miriadi di case, in generale, di gente straniera e non, in Italia e all’estero. 
Parlo ovunque con chiunque, sono una che fa conversazione e che ascolta storie dappertutto.
Lavoro in hotel, prendo treni e frequento aeroporti ogni giorno, potete immaginare quanta umanità io viva quotidianamente.

Vedo persone intorno a me scontente, certo, ma ne vedo altrettante felici e soddisfatte.
Vedo gente spostarsi e avere problemi per questo, ma comunque cercare di adattarsi.
Costruiscono nidi, scelgono il colore delle pareti, cambiano l’arredamento.
Si sentono a casa, pur essendo lontani dall’origine migliaia di chilometri o anche solo dieci metri.
Io, dall’articolo di Erasma, ho continuato a viaggiare in lungo e in largo e ancora non ho trovato un posto dove fermarmi perché mio.

Mi fermavo volentieri su un divano bianco che avevo, questo sì.

Non proprio bianco, era un po’ caffellatte; un po’ ruvido che se ti sedevi in calzoncini ti facevi male alle gambe.
Lì c’era aria di casa. Era un ambiente quasi tutto bianco ma non sterile.
Un’altra delle case in cui ho vissuto, invece, era quasi tutta sterile ma non bianca.
A volte, per quanto ti sforzi di abbellire l’ambiente, non ottieni niente che abbia calore.

Allora forse la casa è dove c’è calore.
Ma calore di cosa o di chi?
Non dovrebbe venire da se stessi, o ci vuole una famiglia?
Eppure, quando vado da mia madre, mi sento a casa anche se lei non c’è.
Quindi casa non sono le persone.
Ma nemmeno l’ambiente.
Forse sono i ricordi.
Magari casa sono i ricordi belli, che quelli brutti non li vuole nessuno come definizione di casa.

Quando ero piccola – ma nemmeno tanto piccola, diciamo più quando ero ragazza – volevo vivere in albergo. 
Parlavo con mio padre, che mi spiegava che aveva fatto i calcoli: non conveniva possedere un appartamento perché, a conti fatti, la spesa globale tra bollette, manutenzione e affitto costava quanto un residence, con gli evidenti vantaggi che quest’ultimo comportava.
Pianificavamo di vivere così, alla sua pensione.
Non ci è arrivato, ma quando ne parlavamo anche un residence sapeva di casa.

Quindi oggi, fine agosto 2018, mi trovo ancora a non sapere dove andare e a non sentirmi in nessun luogo.

Però ho cinque certezze, e le voglio condividere con voi. 

Nel frattempo: pensate alla vostra definizione di casa.

Mi sento a mio agio quando torno nella casa di Roma.
Ci sono alcune città nel mondo che mi mandano buone vibrazioni.
Sono sinceramente contenta per le persone che dichiarano di sentirsi a casa nelle loro circostanze – non so come fate né perché, e vorrei tanto vivere quello che sentite, ma vi ammiro e sono felice per voi.
Le tre grandi domande del mondo sono “cos’è l’amore”, “qual è il senso della vita” e “che significa casa”.
Continuerò a viaggiare, ascoltare e osservare, per cercare la risposta a tutte e tre.

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Di come posso sapere cosa accadrà nel 2018 + una domanda per voi

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Esattamente il 1 gennaio 2017 aprivo ufficialmente partita iva.

Avevo immaginato molte volte me stessa in miriadi di attività imprenditoriali ed indipendenti, con grande fatica in Italia, per la solita questione di tasse e burocrazia.
Ho sempre coltivato idee. Alla fine, ho finito per piantarne una in Olanda.
Al semino piantato ho dato il nome di The Dots Connection. Il suo compito era quello di raccogliere i miei vent’anni di esperienza in comunicazione e metterli al servizio di ognuno di voi, come guida personale.
Tuttavia, per quanto l’idea piantata mi intrigasse, non potevo abbandonare la creaturina, ovvero il posto dove siete ora. Ho deciso dunque di registrare, sotto la stessa partita iva, anche il nome I Viaggi della Druida, e di affiliargli tutta l’area di creatività e arte, di cui la mia micro-impresa è dotata.
Nel corso del 2017, ho lavorato con entrambi i nomi. E, per certi aspetti, ho finito per fare con entrambi attività inaspettate.

Perché vi racconto tutte queste cose?

Qualche anno fa, un giorno di fine dicembre, ho scritto un post di auguri per l’anno a venire e, nel tempo, lo ho riproposto spesso. Ci credo sempre, e ancora lo riscriverei proprio come lo avevo prodotto allora.
Quest’anno, però, sento l’esigenza di fare il punto in anticipo.
Non posso dire di aver amato il 2017, ma nemmeno di averlo odiato.
Ho avuto ciò che ho chiesto, anche se non nei termini in cui lo immaginavo. Ma i termini in cui le cose si sono presentate hanno portato, a loro volta, ad altre situazioni che altrimenti non ci sarebbero mai state (o forse sì, ma chissà con quali altre infinite varianti nello spazio della vita).
Non ho avuto i lavori che pensavo. Ho avuto un gran numero di cadute accidentali più un danno da gatto, che tutte insieme hanno fatto giocare tutte le mie articolazioni. Ho avuto un gatto, e chi pensava di prenderne uno. Non sono tornata da mia madre a Natale. Ho avuto un numero imprecisato di raffreddori, otiti e febbri al punto che ho smesso di contare le malattie. Ho faticato mentalmente, più di quanto avrei dovuto e voluto. Ho avuto delusioni clamorose. Ho visto ancora l’egoismo umano, è ovunque oh, e son pure convinti di averci ragione. Mi hanno dato della femminista: ahah, a me! Ho avuto dei lutti.
Allo stesso tempo, ho insegnato a studenti universitari. Ho avuto la possibilità di trasmettere la mia visione di un utilizzo consapevole degli strumenti di comunicazione. Ho svolto una montagna di lavoro gratuito che mi ha portato a conoscere persone e storie interessantissime, e mi ha portato anche a lavori remunerati. Ho avuto una maggiore conferma delle persone che posso considerare presenti per me e a quale livello, e di quelle per le quali io sono disposta ad essere presente. Sono tornata in Italia in un viaggio improvvisato. Ho fatto una settimana di mare bella come un mese, e spero tanto di poterla rifare anche l’anno prossimo. Ho conosciuto di più mia figlia. O meglio: mia figlia mi ha permesso di conoscerla. Ho conosciuto di più me stessa.

Per questa maggiore conoscenza di me stessa, senza che mi serva la veggente so già cosa accadrà nel 2018 e posso fare il punto in anticipo.

Ho avuto il mio semino imprenditoriale piantato e già vedo come deve cambiare e svilupparsi: sono in arrivo grandi sorprese e novità. Ci sarà da lavorare davvero tanto, ma ne varrà la pena.L’unico lavoro che vale la pena fare nella vita è quello che faresti anche gratis.
Il viaggio (tutto! chilometri e non) è il cardine del mio pensiero, del mio cuore, del mio animo e della mia vita.
Insieme è meglio di soli e da soli, sempre e comunque. Non credete a chi vi dice il contrario o a chi simula di esserci ma agisce solo per sé.
Il corpo è un mezzo di spostamento che, finché c’è, va curato e coccolato (lezione vecchia che vale sempre la pena ricordare).
C’è molto più di quel che ho scritto sopra, ma per ora va bene così.
Un buon rossetto risolve cose.
Vi lascio con un mio selfie di Natale 2017 e, se non avete niente da fare, potete provare a immaginare quali sono le cose che questo rossetto potrebbe aver risolto.
Per ultimo, vi faccio una domanda:

siete pronti ad abbracciare quel che arriva, senza ostacolarlo con tutte le vostre forze?

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Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
 
Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d’ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
 
Sempre devi avere in mente Itaca
– raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
                                                                                                          
Konstantinos Kavafis, 1863 -1933