ponti di chicago, punto di attracco

Il punto di attracco

202306181414

Mi sono trovata a ripercorrere il mio blog, oggi, e con esso alcuni degli articoli che ho scritto in passato.

Ogni volta che qualcuno mi chiede “di cosa scrivi?” io non so mai davvero che dire.

Di “amore”, rispondo, “è il mio tema preferito”.

Scorrendo i vecchi articoli, ho perso il conto di tutte le volte che ho davvero parlato di amore; di tutte le volte che credevo di averlo trovato, e di tutte le volte che ho tentato di darne una definizione.

“L’amore è come una pizza margherita: pochi semplici ingredienti e tanto tempo di lievitazione.”

Questa è la frase che, tra tutte, è quella che ricordo bene di aver scritto, e che si avvicina di più a quel che credo ancora.

Lungo lo scorrere di quegli articoli, lento come il fiume Tevere della mia città, ho trovato diversi punti di attracco.

Alcuni erano marci.

Alcuni erano validi, ma non abbastanza forti.

Alcuni erano sbagliati.

Alcuni non erano proprio punti di attracco, ma quando sei in giro con la tua barchetta e ti vuoi fermare, fai di ogni posto una fortuna.

Guardando ognuno di loro, a volte mi sono chiesta se davvero ci abbia mai capito qualcosa; se non abbia cambiato troppe volte; se non abbia mai giurato amore troppo presto. O se invece confondevo tutto il tempo gli attracchi con le pizze margherita.

La verità è che ognuna delle persone che è passata nella mia di vita, così come nella vostra, ha avuto il suo senso.

Ogni amore è stato vero. Ogni parola detta è stata sincera e sentita. Con tutto il dolore che questo a volte ha comportato.

Come mi sono trovata a dire oggi, a volte soffri e ti si lacera il cuore con tutta l’anima attaccata intorno, e a volte vinci, ci guadagni e voli. In ogni caso, vivi. E non c’è cosa più bella.

Alla soglia dei 50 che compirò alla fine di quest’anno, mi trovo all’inizio di un nuovo libro nella biblioteca della mia vita.

Questa biblioteca scorre lentamente sul fiume. Ho smesso di correre e cercare affannosamente qualunque cosa non mi appaghi come persona. Scruto l’evoluzione; vedo i miei vecchi attracchi, rileggo i libri più vecchi, faccio tesoro di tutte le lezioni che ho imparato.

La migliore, quella che mi rende più fiera, è come la somma del tutto faccia di me la persona che sono oggi. Senza barriere temporali, ancora con la voglia di farmi cullare dalla giusta onda.

Lentamente, mi avvicino al punto di attracco.

Lascio che a guidarmi sia la mia consapevolezza di me stessa.

tattoo ace of spades

Demone artista

202107262329

La questione di Tinderen e delle tossine è un po’ il tema dominante di questo luglio.

Ho attraversato un mese complesso, che mi ha vista aumentare la mia produzione artistica per la prima volta dopo anni. E questo comunque è un bene.

Ci sono arrivata facendo un giro molto largo, partito nel 2020.

Durante il fermo dell’anno scorso, c’è stata una persona che mi ha fatto riflettere su me stessa.

Ero già avanti nel mio viaggio, ma c’erano degli aspetti che ancora non riuscivo ad affrontare nella maniera giusta per smantellarli, ed altri di cui non ero davvero cosciente.

Questa persona, parlando di sé e facendomi parlare di me, mi ha aiutata inconsapevolmente. Non ha detto cose particolarmente originali che qualcun altro non avesse mai detto. I concetti sono sempre quelli, a volte. Ma si è recettivi in maniera diversa, per via dello scambio di energie che si crea tra persone.

Con alcune, il collegamento è tale che pure se ti dicessero ‘carciofi’, tu ci troveresti un senso molto profondo.

Con alcune persone ti senti più a tuo agio. Di alcune persone ti fidi, o ti fidi di più.

Alcune persone sai che non ti tradiranno, o almeno così dovrebbe andare – poi, la vita accade -, perché sono le stesse persone che si raccontano con te, e con te mettono la loro anima a nudo, tirando giù le barriere della mancanza di fiducia, sentendosi finalmente liberi.

Alcune persone entrano a far parte di te e tu non ti sei nemmeno accorto come, quando è successo, perché, né quanto ti stiano aiutando a riflettere e crescere.

Atteggiamenti e abitudini dell’altro che danno forma ai tuoi lati oscuri, a un tratto sono lì di fronte a te, e hai due scelte: rifiutare di nuovo tutto a prescindere, solo perché lo hai sempre fatto e non conosci altra strada, o ammettere ciò che è altro da te, diverso da te, l’ombra di te, e accettare di cominciare a scavare, in un viaggio verso il basso molto doloroso.

Penso a emozioni incompiute, che hai messo a bollire lasciandole attaccare sul fondo della pentola e non avendo il coraggio di avvicinarsi più, perché la puzza è troppa.

Sembra tutto molto complicato?

In realtà non lo è. Fatemi riportare il concetto a un livello semplice:

Ci sono persone che ti aiutano ad aprire gli occhi sulla tua stessa vita e ti danno quella spinta necessaria a uscire dal tuo torpore e affrontare gli ultimi demoni rimasti.

Tra i demoni rimasti, c’era quello della creatività, sempre lasciata là, buttata in un angolo, un po’ maltrattata, poverina.

Accettare di essere un’artista, in un mondo – quello contemporaneo – che di fatto espelle il concetto prima ancora che sia nato, è stato il durissimo passo successivo.

Con la ripresa del mondo, e la necessità di portare avanti la vita così com’era, il demone artista ha sviluppato tutto un suo piano B. Sviluppato, abbozzato, ma ancora leggermente offuscato. Fino a questo luglio. La persona che mi ha aiutata in questo viaggio complice fino alla fine.

E anche qui, ho avuto due scelte: chiudermi e tornare indietro a ciò che conoscevo già e avevo già fatto mille volte, o mettere in pratica ciò che avevo imparato nell’ultimo anno, liberare le tossine, prendere il demone artista per le corna (non lo so, ce le ha le corna?) e approfittarne per cavalcarlo. Ora o mai più.

Si dice che alcuni artisti producano meglio quando soffrono. Altri fanno molto di più quando sono felici. Io non rientro nella seconda categoria. Ma va bene, ognuno sfama il proprio demone come meglio crede, come meglio sa fare. Il mio sta mangiando pensieri, gocce di sale, parole, foto, disegni su carta e sulla pelle. Sta mangiando note musicali. Si sta mangiando anche le ore notturne, e va a fare il rettile al sole.

Ero su youtube, l’altro giorno, e l’occhio mi è caduto su un commento sotto a un video:

“and that’s why I get excited when artists start dating, when they break up they release some fire tracks”.

Mi ha fatto sorridere un bel po’. Ho pensato che è cinico, ma anche tanto vero.

Artist demon

The thing with Tinder and toxins is the dominant theme of this July.

I had a complex month, during which my art production increased for the first time in years. I actually got here by taking a very wide loop, started in 2020.

During last year’s detention, there has been a person who helped me make some self-reflection.

I was already well along on my journey, but there were some aspects that I still couldn’t deal with properly, and some others that I wasn’t totally aware of.

This person talked and made me talk, and he unknowingly helped me. He didn’t say anything that was particularly original. The basic concepts are always the same, but one is receptive in a different way, depending on the exchange of energies that happens between people.

With some of them, the connection is such that even if you were told ‘artichokes’, you would find very profound meaning in it.

You feel more comfortable with some people. You trust them.

Those won’t cheat on you, or so it should be – then, life happens -, because they’re the same people who get their soul naked with you, putting down the walls of trust issues, finally feeling free.

Some become a part of you and you don’t even know how it happened, when, why – or how much they are helping you to reflect and grow.

Attitudes and habits that are the shape of your dark sides, suddenly become real in the other person, and you have two choices: to reject again regardless because that’s what you always do, or to admit what is other than you, and start doing your shadow work.

I am talking unfinished business, complex emotions that you’ve put to a boil by letting them stick to the bottom of the pot and not having the courage to get closer because the smell became too strong.

Does this all sound complicated?

It really isn’t. Let me bring the concept back to a basic level:

There are people who help you open your eyes and give you the boost you need to get out of your slumber and face the last remaining demons.

Among the demons left was creativity, always left there, thrown in a corner, a little mistreated, poor creature.

Accepting to be an artist, in a world – the contemporary one – which in fact expels the concept even before it’s born, was the very hard next step.

With the world opening back up, and the need to carry on with life as it was, the artist demon developed a whole plan B. It was sketched, but still slightly clouded. Until this July – the person who helped me in this journey, complicit to the end.

And again, I was left with two choices: shut myself up and go back to my usual past, or set myself free, put into practice what I had learned the last year, release the toxins, take the artist demon by the horns (does he have horns?) and ride this opportunity. Now or never.

It is said that some artists perform better with suffer. Others do much more when they are happy. I don’t fall into the second category. But that’s okay, everyone feeds his artist demon as they see fit. Mine is eating thoughts, drops of salt, words, photos, drawings on paper and on the skin. He is eating musical notes. He is also eating night hours, and going reptile in the sun.

I was on youtube the other day, and my eye fell on a comment under a video:

“and that’s why I get excited when artists start dating, when they break up they release some fire tracks”.

It made me smile. I thought it’s cynical but very true.

sdr

Questione di tossine

202107210900

Mettersi la sveglia alle 6 per andare a correre alle 6 e mezza di mattina, per molti è una cosa folle.

Pure dal mio punto di vista. Eppure oggi lo ho fatto. Non ho nemmeno dormito granché, l’altra notte. Mi sono svegliata come al solito alle 4, ho cominciato a pensare a cose, dopo le 5 mi sono riaddormentata.

Ci sono volte che alle 5 faccio colazione per disperazione – una roba regolare, con caffè e tutto – e poi mi riaddormento per un altro paio di orette.

Ma non stamattina.

Quando la sveglia è suonata alle 6, avrei pisolato volentieri un altro po’, ma poi ho fatto due calcoli al volo: c’è bel tempo e, dopo che, nel pomeriggio, avrò finito di lavorare, vorrò andare a correre o vorrò prendere il sole? Più probabile prendere il sole, in una nazione – Formaggiolandia – che il sole lo vede principalmente nei dipinti di Van Gogh, e che trascorre i mesi estivi sotto l’acqua.

E corsa alle 6 e mezza sia.

Dunque, c’eravamo: il mio corpo, un uccellino, un piccione, un corvo, un gatto rosso, un gatto nero, e il mio cervello.

L’uccellino non faceva niente.

Il piccione girava in tondo senza motivo e il gatto rosso girava nella direzione opposta, ma chiaramente con passo da caccia – istinti di geolocalizzazione obnubilati.

Il corvo strillava al gatto nero.

Il gatto nero fissava l’alto di un albero dal fondo, studiando le creature nascoste tra i rami.

Il mio cervello registrava il vuoto intorno, il silenzio, il piacere del fare le cose quando è l’alba, il fatto che a Formaggiolandia d’estate alle 6 c’è la luce delle 10, le persone a dormire, i miei passi veloci sull’asfalto, il mio fiato ansimante, due cani che facevano chiasso in un attico con la finestra aperta.

Notava che tutti quegli animali – i gatti, i volatili – non farebbero mai quelle cose con gli umani intorno; l’assenza delle nostre figure li porta ad essere liberi e ad agire seguendo l’istinto.

Sempre il mio cervello registrava che il mio corpo era stato in grado di alzarsi alle 6 solo per andare a correre.

Cioè volere è potere.

Io lo so che questa frase fa scattare una serie di meccanismi di difesa infiniti, ma mettiamola così: nella sua base, il concetto corrisponde al verosimile.

Da quando sono stata male l’anno scorso, ho deciso che rivolevo i miei polmoni indietro, e mi sono impegnata ogni giorno per riaverli. Li ho educati a respirare di nuovo, poco alla volta, man mano ho aumentato la frequenza del passo, e poi della corsa.

Lentamente, ho cominciato a levare le protezioni dal mio corpo – i tremila strati di vestiti, il cappello, le fasce antisudore, le protezioni alle ginocchia.

Le ginocchia hanno smesso di farmi male.

Nei mesi sono caduta, e ho corso lo stesso, tra slogature e sangue. Mi sono messa in testa che il mio benessere veniva prima.

Tutto questo mi ha portato lentamente a cambiare dieta, perdere peso, lasciare andare vecchie abitudini, far pensare a mia madre che il mio nuovo look fosse la conseguenza di un torrido segreto. Ma l’unica verità è che questa perdita di zavorra è stata totale: si è applicata al corpo come alle persone, e si è riflettuta all’esterno.

Potrei dire che sia stata quasi una questione di eliminazione di tossine. E per non dimenticarlo, me lo sono scritto sulla finestra.

Alla questione della zavorra verso le persone, ci sto ancora lavorando. Lasciare andare. Rispettare i miei sentimenti e le mie emozioni, se qualcun altro non lo fa. Validare tutto come parte di una vita, non accettare gaslighting, scaricare le energie di chi non vuole fare un passo per migliorare. Smettere di giustificare ogni singolo “volere è potere non si applica nel mio caso”.

Certo, ci sono circostanze che vanno al di fuori del nostro controllo – prendete le frontiere chiuse per esempio, sono forse parente di Biden, che posso risolvere questa cosa? Ma come prendiamo tutto il resto, quello sta a noi. Le diete, le sveglie, le corse. I sogni, gli obiettivi.

La mia perseveranza nella corsa ha puntato il dito contro me stessa, stamattina, quando mi sono detta: “posso alzarmi alle 6 tutti i giorni perché voglio impegnarmi a migliorare le funzionalità del mio corpo, posso fare la stessa cosa se davvero voglio impegnarmi in un qualsiasi altro progetto. E i risultati arriveranno, qualunque essi siano, se continuo a investirci il mio tempo”.

Ecco, semplice così.

stato di coscienza - state of consciousness

Lo stato di coscienza

(photo credits: Lindelokse, Nous) 

 

202101091947 

 

Situazione attuale:

un sabato sera, zero gradi fuori, calduccio da termosifone dentro. Lucine soffuse. Letto, che non è mai troppo presto. Devo ancora cenare; non ho fame. Sto attendendo una telefonata che probabilmente non arriverà nemmeno oggi.

Il pensiero che mi gira in testa da tutto il giorno non è originale a me, né alla comunità.

Penso a cosa voglia dire essere felice.

Difficile, vero?

E invece no.

Essere felice è uno stato di coscienza.

La stessa coscienza che mi fa pensare a questo concetto da tutto il giorno, e che mi ha trovata un po’ giù, ma senza alcun motivo reale.

Questa è la storia.

Ero lì, tutta concentrata su come fare pubblicità a una delle mie pagine Instagram. Ne ho una che traccia il mio viaggio in fotografia, e recentemente ne ho aperta un’altra dedicata al mio disegno. E’ un disegno particolare, decisamente non per tutti, incentrato sulla figura femminile, l’amore e la passione, il sesso, e su come la mente ne resti imbrigliata. Instagram mi concede di tenere aperto l’account, ma mi blocca ogni forma di pubblicità, perché il contenuto è ritenuto sessualmente provocante —–>inclusa questa foto:

Mi ci è voluto molto pensare, molto coraggio e molto tempo rubato ad alcuni amici (grazie! Voi sapete chi siete) per buttare fuori questa produzione, e (senza alcuna sorpresa, comunque), Instagram mi ha bannato dal mondo dell’advertising.

Questo pensiero è bastato a modificarmi l’umore, mentre era in corso, tanto che a un certo punto della mattinata, quando mi sono ritrovata a interagire con mia figlia che si era svegliata ed è venuta a darmi il buongiorno, mi sono accorta che non ero la stessa. Ero, diciamo, ‘scurita’. ‘Negativa’.

Allora mi sono fermata a riflettere.

Davvero pensare a modi alternativi di farmi pubblicità poteva cambiarmi l’umore?

No. In realtò proprio per niente, ero ancora la stessa di quando mi ero svegliata – una Paola con il raffreddore, una vita in regola, due siti internet e due pagine instagram.

La questione era più subdola.

E’ così che mi è tornato in mente per la centesima volta il concetto di cui da sempre sono convinta, e di cui parliamo oggi in questo articolo.

Voglio davvero lasciare che il ban pubblicitario di Instagram mi condizioni la giornata, e mi porti a essere musona, scontrosa e a trasmettere energie negative? Chi mi incontrerà tenderà a chiedere ‘tutto bene? Ti vedo un po’ così’, e noi tenderemo a rispondere ‘No, non va tutto bene’. Questo darà il via a una serie di reazioni a catena, il nostro cervello ascolterà che non va tutto bene e ci farà entrare in un cono verso il basso, che alla fine ci porterà a dire che avremo avuto una orrenda giornata.

Ora proviamo a fare il ragionamento inverso.

Non posso fare pubblicità su Instagram alla mia nuova pagina. Ma: ho una nuova pagina, testimone del coraggio di rendere pubblica una nuova idea, e l’occasione di pensare a forme alternative di pubblicità. E’ sabato, c’è stato il sole, non sto lavorando, il che implica che ho un lavoro, che di questi tempi ti pare poco? Vivo all’estero e posso contare solo su di me per mantenere me stessa e la figlia. E ho un raffreddore, il che implica che sono in buona salute, considerati i miei precedenti. Tutto sommato, ho tutto quello che mi serve per essere felice. Tutto sommato, sono felice.

Certo, ho una lista lunga così di sogni, desideri che tardano ad avverarsi, un buco quando si parla di amore, e incubi notturni popolati dai fantasmi del passato. Ma tutto sommato sono felice.

Perché se aspetto che i miei sogni si avverino, i miei desideri si materializzino, il mio amore si materializzi sul cavallo bianco, quella telefonata arrivi, i miei incubi se ne vadano, e Instagram mi faccia fare pubblicità, non sarò mai felice. Specialmente per la parte del cavallo bianco: questo è sempre il sito della Druida, e si sa quanto io ci tenga all’amore.

Non lascereste mai che qualcun altro si prendesse il merito delle vostre gioie, vero? Allora, allo stesso modo, non lasciate che qualcun altro o qualcos’altro vi rubi il diritto a essere felici. Siete voi a stabilire a cosa dare un peso, quando vi alzate la mattina, e da cosa vi farete condizionare l’umore.

E non mi dite che parlo facile, e la vostra situazione è più complessa. Tutti abbiamo situazioni complesse. Lo sapete. Il punto è che ci sono due tipi di persone: quelle che ‘Sono felice e’, e quelle che ‘Sarò felice quando’.

Voi quale siete?

 

jairo-alzate-1CsfTx0DuLs-unsplash

Naked.

202011081903

“Io non ho bisogno di nessuno.”

E’ una frase molto usata, dalle persone.

E’ una frase molto usata dalle persone che sono sole.

Però è falsa.

Non è vero che non abbiamo bisogno di nessuno, che ce la possiamo cavare anche da soli, che ci bastiamo senza che qualcuno ci metta il resto e scarti gli avanzi. 

Non ci sono avanzi, quando a compartire si è in due.

Non è vero che tutti sono utili e nessuno indispensabile.

Cercano di farci credere che sia così.

Io andrò controcorrente, ma la penso in maniera completamente opposta.

Io penso che possa esistere qualcuno di cui aver bisogno. 

Ma penso anche che questa sia una frase che funziona solo quando è ricambiata.

C’è un qualcuno che, fino a che non c’era, pensavi non potesse esistere.

Un qualcuno che viveva solo in una proiezione dei tuoi sogni, dei quali hai fatto un calco su ogni persona con cui hai intrecciato la tua vita.

E’ facile sfiorare la confusione, in questo senso. 

Attribuire un ‘io ti amo’ a chi in realtà è un ‘io ti bramo’.

Ma un cuore puro sa riconoscere la differenza.

E non è vero nemmeno che, alla lunga, le storie tra le persone sono tutte uguali.

Non sono tutte uguali. 

Non sono tutti uguali.

C’è un incastro chimico iniziale a fare la differenza.

Quella cosa che la gente chiama ‘colpo di fulmine’, probabilmente.

Quello sguardo che ti scambi e capisci che hai davanti una persona diversa dalle altre, per come sei fatto tu; in fusione con te, per come sei fatto tu; con la quale ti intendi subito eppure il tuo pensiero non è facile, per come sei fatto tu. 

Quella, è la persona di cui hai bisogno.

Perché mai e poi mai vorresti rinunciare a una parte di te.

A chi ti capisce. 

A chi ti ascolta anche quando non stai parlando.

A chi ti vede anche da bendato.

A chi ti fa ridere.

A chi ti lenisce un dolore con la sua presenza.

A chi condivide con te i più piccoli fatti della giornata senza sentirsi in imbarazzo da banalità.

A chi è capace di stare al telefono con invariata disinvoltura, siano due minuti o due ore.

A chi non ha vergogna di dirti ‘sono contento che ci sei’.

A chi ancora ha voglia di toccarti, perché sa che la voglia si rigenera spontaneamente.

A chi non ti stanchi di baciare.

A chi non conosce le forzature e lascia la libertà.

“Io ho bisogno di te.”

E’ una frase che non tutti sanno dire.

Ed è un privilegio potersela permettere.


(photo credits: Photo by Jairo Alzate on Unsplash)

carte da gioco e dadi oro

La spinta del cuore

(202007061930)

 

Mentalmente, mi appresto ad andare. Verso dove è solo una bozza ancora tutta da chiarire, ma è certo che i tempi sono quasi maturi, e che l’unica cosa che mi guiderà sarà, come sempre, il cuore, perché una vita senza seguire il cuore non vale la pena di essere vissuta.”

La citazione che avete appena letto è di questo brano qui.

Quello che ho scritto a maggio e per il quale avevo promesso un chiarimento ‘a breve’.

Poi si sa come ‘a breve’ diventa per me. Diciamo che il concetto di tempo è molto esteso, per una che si chiama la Druida. Così, da maggio ad ‘a breve’, ci ritroviamo a fine luglio.

Il motivo per cui ho sentito il bisogno di chiarire il va-dove-ti-porta-il-cuore praticamente due minuti dopo che lo ho scritto (nonostante i due mesi dopo che lo ho fatto), è nato da una lettrice che ha lasciato un commento su Facebook sotto al post.

Le sono grata, mi ha dato modo di immaginare il concetto nella mia testa e di dargli forma: di modellarlo, così come lo intendevo io. Ed è per quello che oggi mi ritrovo a scriverne.

Il cuore che seguo non è un cuore di amore.

Lo sapete: l’amore è il mio tema centrale, fulcro di un viaggio, quello della Druida, fluttuante, tra il sogno e la realtà, l’immaginario e il reale, il tangibile e l’impalpabile.

E’ l’amore che mi muove, e questo amore non è quello dei Baci Perugina che vi state forse immaginando. L’amore di cui parlo è un concetto esteso universale, che va sopra e che va oltre. Above and Beyond.

Ma le scelte d’amore e le scelte di cuore sono due cose differenti.

Il cuore ha il suo protagonismo molto più ampio su altre scene, è “tutto un insieme vasto di esperienze, sapori e sensazioni, che hanno a che vedere con tutto il tuo essere, e l’amore è solo una parte di esse”, come scrivo in questo articolo per Donne Che Emigrano all’Estero.

Il cuore è il mio istinto.

Ho sempre cercato di fare le mie scelte seguendo l’istinto e non la mente, perché ogni volta che ho seguito la mente alla fine ho sbagliato.

E per sbagliato intendo che mi sono trovata scomoda e inadeguata. Non pentita, perché comunque se quella scelta la avevo fatta, aveva un senso, e c’era una lezione da imparare. Ma alla fine la morale era sempre la stessa:

la mia mente era in linea con il mio cuore?

Quando la risposta è stata no, il passo successivo è stato cambiare strada; indovinate per andare in quale direzione.

Non dico che seguire il cuore non porti dolore. Lo porta eccome.

Porta sofferenza e gioia, porta essere dilaniati, porta avere il coraggio di armarsi, porta il disturbo di rompere le proprie barriere. E dio sa se fa male a volte.

Ma dio, se ti dà quello che cerchi.

E quando quello che cerchi è tuo e lo ho hai costruito tu, nessuno te lo può togliere.

Immagino che a qualcuno (forse a più di qualcuno), tutto questo sembrerà folle o senza un senso concreto.

Seguire il cuore è l’equivalente di sedersi in una stanza neutra, chiudere gli occhi e pensare: “Cosa voglio davvero? Dove mi sento trasportato? Cosa mi fa sentire appagato?” e poi farlo.

A volte, seguire il cuore è anche sedersi in quella stessa stanza, chiudere gli occhi e pensare “Chi mi fa sentire completo?”, che significa ‘naturale’, ‘completementare’, ‘a casa’. Ma questo è un altro discorso. Questo è un altro articolo.

Il punto di oggi è il cuore come intuito, come istinto che ti dice sempre dove andare e dove sta la verità per te.

Puoi decidere di seguirla, o di utilizzare le barriere di convenzione.

Ogni scelta è buona. Nessuna è condannabile. L’importante è l’accettazione.

(photo credits: Matt Flores on Unsplash)

scena dal film 'Chocolat', Juliette Binoche e Johnny Depp

La scossa

(202005051954)

L’otto marzo pubblicavo l’ultimo post prima di questo. Oggi è il 5 maggio, come al solito mi sto dimostrando incostante.

In realtà un motivo ce l’ho, questa volta, per non aver scritto in – praticamente – due mesi, e pure bello grosso. Ma non ne parlerò. Questo è un po’ il guaio dell’essere un personaggio pubblico (una sorta di): se dai in pasto la cosa sbagliata, diventa un casino.

Dunque, allontanate pure le congetture dalle vostre menti, che tanto sarebbe assolutamente inutile perché non vi dico niente, e passiamo al punto dove vi voglio portare.

Quanto siete cambiati dentro?

In inglese, la sveglia dal torpore si dice wake-up call.

La wake-up call è la scossa, un campanello d’allarme, il segnale che è ora di cambiare, la chiamata alle armi; quella catasta di roba che vi si rovescia addosso e non potete ignorare.

Ho avuto molte wake-up call nella vita, quindi le cose sono due: avevo un sacco di lezioni da imparare oppure non sono ancora arrivata a svoltare l’angolo giusto.

O magari sono entrambe le cose. E con questo non voglio dire che stavolta ci sono, perché come fai a capire quale sia l’angolo giusto diciamo che con certezza ancora non lo so.

In ogni caso: è suonata un’altra sveglia.

In un paese, qui, dove puoi fare un po’ come ti pare, rispetto alle chiusure forzate di altre nazioni; dove la mascherina non è obbligatoria; dove non ti sparano addosso; dove l’approccio elastico ha trovato la mia approvazione (ah, cosa ho detto!); dove il silenzioso razzismo si stampa anche nella discriminazione di un essere umano malato.

Per questo ultimo motivo e per tanti altri, mentalmente mi appresto ad andare.

Verso dove è solo una bozza ancora tutta da chiarire, ma è certo che i tempi sono quasi maturi, e che l’unica cosa che mi guiderà sarà, come sempre, il cuore.

Perché una vita senza seguire il cuore non vale la pena di essere vissuta. Ricordatevi che è oggi il tempo in cui siete.

Né ieri, né domani.

selfie da sotto, per una volta

Di questi anni cosa resta

di questi anni che cosa resta,

se questi ancora si svolgono con le loro carni lacere al fianco, cercando di nasconderne l’usura, la vergogna e gli errori.

di questi anni cosa resta,

sul tavolo del salotto mentre facciamo pranzo, e i telefoni si impossessano sempre di più delle nostre dita, il nuovo quoziente intellettivo globale sempre più in basso, la nostra capacità di pazienza sempre più stretta, con la sua voce sempre più in alto che cerca di giocare a fare la grossa.

di questi anni cosa resta, e cosa resterà di questi passi, passati a smontare le tende per lavarle, a pulire maniacalmente le mattonelle di casa, a lucidare le maniglie dei mobili. tutti gusti all’italiana, di cose che facevo da italiana, che tradivano, ogni volta, uno “sto male devo pensare”, che mi ricordano mia madre;

che mi ricordano che ho chiesto vacanze e non ho ancora comprato il biglietto. forse andrà solo lei, la piccola che questo anno se lo merita. e io, madre, vorrei che andasse, per farla tornare a volare;

che mi ricordano che non ho vacanze, non ho programma, e quel che c’era non c’è più. e anche se lo avessi, non si sentirebbe.

cosa resta di questi anni,

se la cara compagnia sparisce?

forse una rosa del deserto.

forse un impalpabile alito di vento.

forse una croce.

di questi anni che cosa resta,

di queste cene, di questi anni, di questi pomeriggi vuoti non apprezzati, e noi pellegrini andavamo a inseguire le onde per cercare anche solo una gioia, pur sapendo, che era effimera, solitaria, un po’ buia, dimessa, non caciarona, sorniona.

una gioia non dedicata; una gioia non attenta.

una gioia un po’ sbadata.

ma erano quei giorni, quei giorni che ti chiedevi che cosa facciamo, perché ci siamo, perché non chiami, perché non ami, perché non ci sono gli amici, perché non viene nessuno, perché sono tutti partiti, perché chi ti pensa non lo dice, perché chi lo dice te lo sbatte in faccia, con cattive intenzioni.

erano quei giorni, quei giorni in cui non ci sono i biscotti, e tu ti chiedi che fine hanno fatto. non sono pronta a perdere in biscotti. non sono pronta a perdere te.

ancient-clock

My year in review

(202001130255)

A bit more than a year ago, something happened that made my life take a new direction.

I was out for dinner, explaining to my ex how much I had learned the lesson, while he replied that he would never, ever follow me anywhere.

An exciting start in January, you’ll probably think. At least, that’s what I thought.

I had just come out of a tough year I was still recovering from. The new one just started, and the “who cares” mood already took place. That was awesome.

I found myself obsessively thinking for a solid twenty days, “What am I doing?”.

“I wouldn’t follow you” was growing inside me.

So, one morning, a little less than a year ago, I woke up and out of the blue everything was clear.

By sitting and waiting, I was losing opportunities, people, future memories. I was losing my life.

I let it go.

I let it go and, as a consequence, I immediately saw what I had before my very eyes and never noticed: the new direction mentioned in the first line of this article.

Side note, this new direction also has a name, and he also opened my eyes to the world throughout the year, but we are not here to talk about this, now.

The thing is that it was not even the end of January, everything had changed already and I had no idea what was waiting for me.

I embarked on a journey full of words, facts, emotions. I must say, February was not that bad.

In March, the first unexpected thing happened.

A terroristic attack in small U; on the tram that my daughter takes to school.

An unforeseen trauma, which we never talked about again. It left us breathless, and still without the courage to take that tram again.

April and May passed quietly, and June welcomed a big death in the family. It’s not the first time that a family death happened since I’ve been living in Holland, but this one was different: this one was really special. This one is something I was waiting for a lifetime, somehow.

I was at work, that day. It was a Saturday morning. I got the news in the middle of the shift; there was no one to talk to. Things remained like that, captured in time.

Besides, due to that death, a piece of family crumbled, revealing the great sadness of human existence.

In July and August, I slept, worked and slept, waiting for a September that went quiet and proved explosive.

In September, nothing ever happens in my life, but I usually consider it as my personal January. This September, in particular, marked the last year of high school for my daughter, who turned 18 in February, and an interesting month-long life experiment, which allowed me to study my frailties.

I felt the passing of time. The lack of a second child. The inconsistency of my future.

All things that I didn’t really feel like dealing with; but I cannot make them disappear either.

I just couldn’t talk about any of it. I closed my eyes and ran.

A lot.

Until a wall stopped me in October.

My daughter suddenly got sick and my life paused.

Since then, it was all a descending path of fatigue, darkness, and confusion, and the only certainty was being calm and impassive, while a few people made me realize how strong I am living abroad and raising a kid all alone.

At the same time, work put me to the test with challenges, training, and impossible shifts, which I accepted because I didn’t have to stop. I couldn’t stop.

In November, I was gasping, trying not to think.

In December, I didn’t breathe much.

Yet, I was still traveling.

When the end of the year finally came, I was totally exhausted, divided into 4 parts: work, my love life, my daughter, and the group of life events happened, each part required maximum attention; the fourth above all had never had a voice.

I spent the 31st in silence, with no clue what to think.

And on the night of the transition, I collapsed.

I collapsed under a stream of avalanche thoughts, which shed light on the caducity of time and the difficulty in embracing and keeping beautiful things.

My job became small; my daughter’s voice became more and more distant as she said: “I’m happy for you, you deserve it”.

I reopened the new January with the same question as the year before.

Right now, I’m working night shifts, which for me is the equivalent of going on a long journey, walking in a forest or staring at the sea: it gives me the time and space to think.

And that’s so perfect, for a month that is running incredibly slow.

Poco più di un anno fa, è successa una cosa che ha fatto prendere alla mia vita una nuova direzione.

Ero a cena fuori, che spiegavo al mio ex quanto avessi capito dell’attesa e del tempo, mentre lui mi rispondeva che mai e poi mai mi avrebbe seguito da qualche parte.

Un inizio di gennaio esaltante, penserete. Io lo ho pensato.

Ero appena uscita da un anno forte, da cui ancora mi dovevo riprendere. Il nuovo anno cominciava, e “who cares” sembrava già regnare primario, dando l’impronta ai futuri mesi.

Sono rimasta a pensare per buoni venti giorni. A che stavo facendo, cosa avevo di concreto in mano, cosa speravo di ottenere.

“Io non ti seguirei” mi stava maturando dentro.

Così, una mattina di poco meno di un anno fa, mi sono svegliata che avevo capito. A stare seduta ad attendere, mi stavo perdendo occasioni, persone, futuri ricordi. Mi stavo perdendo la vita.

Ho lasciato andare.

Ho lasciato andare e il primo effetto di questo gesto è stato vedere ciò che avevo davanti agli occhi e di cui non mi ero mai accorta: la nuova direzione citata nella prima riga.

Tra l’altro, questa nuova direzione ha anche un nome, e ha pure aperto una finestra sul mondo che ha richiesto un lavoro continuo e consapevole durante tutto l’anno, ma non siamo qui per parlare di questo.

La questione è che ero a nemmeno la fine di gennaio, già tutto era cambiato e non avevo la più pallida idea di cosa stava per aspettarmi.

Mi sono imbarcata in un delizioso nuovo viaggio ricco di parole, fatti ed emozioni. Febbraio è stato niente male.

A marzo, il primo imprevisto.

Un attentato nella piccola U, la città in cui vivo; sul tram che porta a scuola mia figlia.

Un trauma non previsto, di cui non abbiamo mai più parlato. Una roba che ci ha lasciato senza fiato, e, a distanza di mesi, ancora senza il coraggio di riprendere quel tram.

Aprile e maggio sono passati in sordina, e a giugno è avvenuto un grande lutto in famiglia. Ce ne era già stato uno da quando vivo all’estero, anche quello importante, ma questo, questo era proprio diverso: questo era speciale. Questo è qualcosa che aspettavo, potrei dire quasi da una vita, in un certo senso.

Ero al lavoro, quel giorno. Era un sabato mattina. Ho ricevuto la notizia nel mezzo del turno, non c’era nessuno con cui poter parlare. La cosa è rimasta così, catturata nel tempo che ha ricominciato a scorrere.

Grazie a quell’evento, tra l’altro, quell’angolo di famiglia che era rimasto si è sgretolato, rivelando la grande tristezza dell’esistenza umana. Mah.

A luglio ed agosto, ho dormito, lavorato e dormito, in attesa di un settembre che è entrato in sordina e che si è rivelato esplosivo.

A settembre nella mia vita non succede mai niente, ma io lo considero come il mio gennaio: è il mese in cui penso e quello in cui ricomincio. È anche l’inizio della scuola.

Questo settembre in particolare segnava l’ultimo anno di liceo per mia figlia, che a febbraio ha fatto 18 anni, e un interessante esperimento di vita durato un mese, che mi ha permesso di studiare le mie fragilità.

Ho visto il tempo che passa. La mancanza di un secondo figlio. L’inconsistenza del mio futuro.

Tutte cose con cui non mi andava molto di fare i conti; ma stanno lì, non è che negandole scompaiono.

Non ne ho parlato.

Ho chiuso gli occhi e ho corso.

Fino a che, ad ottobre, non mi ha bloccato un muro.

Mia figlia si è improvvisamente ammalata e la mia vita si è sospesa.

È cominciato da allora un percorso discendente di fatica, buio e confusione, dove l’unica cosa certa era restare calmi e impassibili, mentre qualcuno mi faceva rendere conto che dovevo proprio essere una persona forte a vivere all’estero e a crescermi un figlio da sola.

Allo stesso tempo, il lavoro mi metteva alla prova con sfide, training, e orari impossibili, che accettavo perché non dovevo fermarmi, non potevo fermarmi.

A novembre rantolavo, cercando di non pensare.

A dicembre, respiravo poco.

Ma ancora viaggiavo.

Quando sono arrivata alla fine dell’anno, ero ormai esausta, esaurita in mille pensieri, divisa in 4 parti, tra il lavoro, la mia vita sentimentale, mia figlia, e il gruppo degli incredibili eventi accaduti. Ogni parte richiedeva il massimo dell’attenzione, e soprattutto l’ultima non aveva mai avuto voce.

Ho passato la giornata del 31 in silenzio, senza sapere cosa pensare.

E nella notte della transizione sono crollata.

Sono crollata sotto un flusso di pensieri a valanga, che facevano luce sulla caducità del tempo e la difficoltà ad abbracciare e tenersi le cose belle.

Il lavoro diventava piccolo, la voce di mia figlia si faceva sempre più lontana mentre diceva “sono felice per te, mamma, te lo meriti”.

Praticamente, ho riaperto il nuovo gennaio con la stessa domanda dell’anno prima.

Sto lavorando di notte, in questo periodo, che per me è l’equivalente di partire per un lungo viaggio, passeggiare in un bosco o fissare il mare: mi dà il modo, il tempo e lo spazio di pensare.

Perfetto, in un mese che sta scorrendo veramente lento.

Despairing-2BRed-2B-2528Love-2529-252C-2Bby-2BKemal-2BKamil-2BAkca.jpg

Cosa ho imparato sull’amore fino ad oggi

(201901281326)

Gesù, lo so già che mi sto imbarcando in un argomento difficile, ed è solo lunedì mattina.

Dovrei dormire e invece me ne sto qui a scrivere.

Di tutte le cose di cui parlo l’amore resta sempre la mia preferita, e quella per cui ogni volta ci lascio il cuore.

La questione è che la vita e la testa sono in continuo mutamento.

Pretendere di avere una teoria che sia sempre la stessa a riguardo è un po’ folle, se il tuo corpo si sta muovendo davvero nello spazio e nel tempo.

A proposito di tempo, l’amore non è una questione di età.

Piuttosto l’età è una convenzione legata al sistema. Un sistema antico e duro a morire, che vedeva l’uomo cacciatore e protettore, e la donna a casa a cucinare il leprotto conquistato.

Se lui è più grande di lei di, che so, 1-5 anni, tutto a posto. Tutto nella norma. Se lui è più grande di lei di 15 anni, lui è un maiale ma comunque un figo, lei una poveretta in cerca di soldi.

Non parliamo del contrario. Lei più grande di lui, che sia di 5 o di 15, è una mantide assatanata con complessi giganteschi nei confronti della vecchiaia e che avrebbe bisogno dell’analista. Di certo non è vista figa, ma chi lo è resta sempre lui – che sta con una più grande e ha capito tutto dalla vita.

Se tutto questo non è un sistema unga-bunga primordiale che ricorda i nostri antenati, ditemi voi che cos’è.

Inesistente, nel mormorio logorante delle persone, la considerazione delle vite personali, delle storie che ci sono dietro ogni scelta.

Tra l’altro, la vivacità e la stimolazione derivanti da persone differenti da noi per età sono incomparabili.

Considerazione personale. Con i coetanei, la frase più ricorrente nel tempo libero è “ti ricordi quella pubblicità?”, e la musica più ricorrente è quella anni ’80 (nel mio caso. Che se poi c’è una roba che detesto, è proprio la musica anni ’80). A qualcuno sta bene così, ma di certo siamo tutti d’accordo che questo non è un parametro fondamentale per amarsi.

Sempre parlando per me, con i più grandi si passa il periodo a deprimersi dietro le crisi esistenziali. Cinquantenni che conosco, non me ne vogliate, anzi, se vi può consolare, credete di essere gli unici ma non lo siete: è un pensiero comune quello della tristezza, e scarseggiano purtroppo le forze (mentali) per fare qualunque cosa.

Cade l’interesse, in gocce di vita sciolte sull’asfalto.

Fun fact. L’altra notte ero in pausa, esco dalla stanza e vengo abbordata da uno che non vi sto a dire chi è, comunque era un tipo tranquillo. Dopo avermi chiesto quanti anni avessi e aver io accennato all’esistenza di una figlia, nel giro di cinque minuti questa persona si è giocata le sue carte così: “non ho figli e questo è il segreto”, “sono buono ma mi hanno sempre fregato tutti nella vita”, “sto vivendo una crisi esistenziale di mezza età e vado dietro alle ragazzine”, “mi sono licenziato e ora non faccio assolutamente niente”. Affermazioni 1 e 4 dette con molta fierezza. Affermazione 1 veramente geniale, se vuoi rimorchiare una madre.

Tra le varianti d’età che mi ha offerto la vita, sono stata sposata con una persona più grande di me di sei anni. Ho avuto una relazione con una persona più piccola di me di otto anni. Indovinate quale delle due storie è stata più difficile.

Capisco davvero solo oggi, gennaio 2019, quanto è vero che l’età sia solo un numero.

Ho nominato i figli. L’amore non è nemmeno una questione di bambini.

Nel senso che non è certo facendone uno che tieni unita la coppia, anzi rischi proprio l’effetto contrario e pure immediato. E anche nel senso che non è non facendone che sei felice.

Un figlio è limitante, deprivante, totalizzante, e come se non bastasse a un certo punto diventa pure ingrato e irriconoscente, ma è l’esperienza di vita più eccezionale che si possa fare. È così forte che te la dimentichi com’era fatta, la tua di vita, prima di averne uno. E non è poi così un male; è solo un’altra cosa.

‘Ste creature mettono in piedi un filo trasparente che, tra l’altro, agli occhi di chi non è genitore risulta e risulterà sempre del tutto incomprensibile. E anche questo rientra nella normalità, l’importante è sapersi accettare.

Nel concetto di sapersi accettare: l’amore non è una questione di razze.

Sembra banale, non lo è.

Vivo in Olanda e quel che i miei occhi vedono non ha distinzione: non ci sono bianchi, neri o asiatici, ci sono persone.

L’ho sempre detto e continuerò a dirlo, l’Olanda mi vede confusa e in perenne conflitto geografico, ma amo questo paese per la tolleranza e l’accettazione delle diversità presenti più che da altre parti (no, questo non è il posto perfetto, ma la perfezione lo sappiamo che non esiste).

Maschi, donne, gay, bianchi con neri, quasi tutte le nazioni del mondo presenti, miscellanee etniche, culturali e gastronomiche: questa è cittadinanza globale, e apre il cuore.

C’è solo che da crescere e da imparare.

Ah. E poi l’amore non è avere gli stessi gusti.

Trappola pericolosa.

Cucinare sapendo che tutto ciò che preparo sarà apprezzato non mi mette al riparo dagli urti della coppia. Una tortilla non mi proteggerà da uno schiaffo, un sushi non laverà le incomprensioni, un taco non salverà il mondo.

Lo stesso valga per altre piccole somiglianze che ti portano a dire “ma dai, pure io, ma allora è destino!”. Non è destino; più probabilmente, qualcuno cresciuto nello stesso periodo o ambiente culturale.

Conosco una coppia affiatatissima, lui fisico astronomico lei pittrice.

Un minuto di silenzio dopo questa affermazione.

Despairing Red (Love), by Kemal Kamil Akca

Non ci sono barriere se non quelle che ti vuoi creare tu.

E dio solo sa che passiamo il tempo a crearcene, perché non siamo quello che gli altri si aspettano o quello che la nostra famiglia si aspetta.

Se solo riuscissimo a lasciarci andare.

Io forse sono sempre priva del vero significato dell’amore, o forse il vero significato non esiste: forse ognuno ha il suo.

O forse l’amore cambia perché è e sempre sarà un sentimento in mutamento. Ma è proprio questo mutamento che dovremmo assecondare, se vogliamo provare.

Smettere di giudicare, aprire le mani e intrecciarle.

Chiudere gli occhi. Perdonare, ma soprattutto cominciare a perdonare noi stessi, perché è l’unico modo per accorgersi del bello, se arriva.

Restare empatici. Restare empatici.

Avere voglia di scoprire altre realtà, di giocare. Essere se stessi nei gesti quotidiani.

Io, per esempio, so che sto trovando l’amore con qualcuno quando rido.

Questo ha molta più importanza di un piatto di sushi condiviso.

Questo, l’attenzione verso l’altro, e la visione comune verso un punto che si perde all’orizzonte.

E cosa importa di tutto il resto.