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Vorrei che tu sapessi che sto bene

(201709302340)

Voglio portarti a vedere i miei luoghi.

Voglio dividerli con te, voglio mostrarti cosa ho imparato.

Voglio farti vedere con i miei occhi – se solo potessi.

Se solo potessi portarti oltre confine e farti ammirare il blu con le stelle, le stelle che ogni tanto appaiono anche qui.

Quelle stesse stelle sono uguali dappertutto e basta guardarle per essere collegati. Il mondo è così piccolo.

Se solo potessi farti vivere le stagioni che vivo io dal ponte. Lo fotografo ad ogni cambio, ad ogni ora, all’alba e al tramonto, per farne un giorno una mostra personale di esposizione del tempo.

Voglio portarti a vedere le casette buffe e ogni altro dettaglio che del paesaggio colgo, dal finestrino del mio autobus.

Quando si fa sera e cala la notte, e qui a volte cala molto presto, vedo le luci dei pub brillare e penso a quante passeggiate faremmo, a ciò che potremmo dirci, a cosa potresti notare.

C’è una statuina, in quella piazza, di una piccola Anna Frank, che ho scoperto per caso. Quasi non si vede, abbagliata dalla bellezza della chiesa sconsacrata di fronte a lei, e dal venditore di finti panini italiani al suo fianco che fa capolino durante il giorno.

Voglio portarti a vedere i miei recinti e il mondo che racchiudono. I tetti strani e spioventi, le mega ville che pensi costino una fortuna e invece tutti potrebbero avere, i giardinetti perfetti da Mulino Bianco.

Voglio farti vedere che razza di ragni giganti ci sono da queste parti e come ho smesso di avere paura di loro. Come ho dovuto ingegnarmi a combattere contro vermi, e parassiti, e zecche, e topi.

Vorrei farti vedere quanto ho scoperto di essere diventata forte, quante cose non sapevo di me e ho imparato.

Voglio portarti a vedere le immagini riflesse sui canali. Farti vivere l’ebbrezza di una casa storta e di un waffle aggrovigliato nell’unto.

Voglio spiegarti cosa c’è davvero in un coffee shop e come cambiano le percezioni. Il primo giorno vivevo in una delle città più ambite del mondo, il quarto mese vivevo in un posto come un altro.

Voglio farti vedere, però, come anche in un posto come un altro può sbucare un tramonto all’improvviso, con un sole che sembra un rosso d’uovo e ti lascia così a bocca aperta che pensi che, oh sì, hai scelto proprio una buona città per le tue ispirazioni.

Voglio farti vedere le gocce di pioggia che si fermano sulle ragnatele. E paragonarle alle gocce di pioggia che si fermano sulla sabbia d’estate.

Voglio spiegarti dove fa capolinea l’autobus, che significano quelle parole e dove mangi davvero italiano.

Voglio vivere con te la malinconia dell’Italia, pensandola da lontano, e decidere alla fine di farci un brindisi.

Voglio farti assaggiare il vino con il tappo a corona. E ti prego, non dire niente, perché il tappo a corona non è nulla dopo che hai visto un Pinot blu.

Voglio che tu veda le striature del cielo, certi tramonti di un colore pari a quelli che appaiono dal lungotevere e ti fanno dire oh sì, eterna Roma mia, mai nessuno ti sostituirà.

Voglio farti provare gli oliebollen quando fa freddo. Assaggiare le bitter ballen, il rotolone alla pasta di mandorle che mi piace tanto, e i poffertjes che ancora mi sono sconosciuti.

Voglio farti vedere come il Natale si dilata da settembre a fine anno. Voglio farti sentire che aria tira, che cos’è una cena di famiglia il 5 dicembre. Voglio farti vedere quanto americano c’è negli addobbi casalinghi.

Voglio farti vedere così tante cose che non so se una vita basterebbe.

Ma vorrei che vedessi attraverso il mio cuore. Che respirassi la mia aria, la neve d’inverno, la brezza sulle maniche corte di maggio.

Vorrei che sapessi come si sta ad essere lontani da quella che hai sempre chiamato casa, anche se lo sai, a pensare in una lingua diversa da quella in cui scrivi, anche se lo sai, a raccontare i tuoi sentimenti in una lingua diversa da quella in cui vivi.

Vorrei dirti di come si sta stretti a chiedere aiuto in lingua straniera. Devi cercare sul vocabolario per essere preciso. Devi imparare a razionalizzare anche il dolore, fisico e interiore. Ma anche questo lo sai.

Vorrei che sapessi che tutto è facile e normale, come se la vita fosse sempre stata questa, ma allo stesso tempo tutto è strano e irreale, come se la vita fosse una bolla. Una bolla che non ti permette di appartenere più a nessun luogo e a nessuna nazione. Hai solo la certezza di appartenere a te stesso. Fuori dalla tua figura, i vecchi amici non ti riconoscono più il diritto di essere italiano, e i nuovi amici ti riconoscono solo come straniero. Alla fine, sei altro.

Ma immagino che questo sia il prezzo da pagare, quando scegli di essere via.

Eppure, sai che c’è? Io resto io. Con la voglia di vederti, con la voglia di abbracciarti, con la voglia di portarti nel mio mondo.

Perché, per la prima volta, raccontare non mi basta.

Vorrei che tu sapessi che sto bene.