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Vorrei che tu sapessi che sto bene

(201709302340)

Voglio portarti a vedere i miei luoghi.

Voglio dividerli con te, voglio mostrarti cosa ho imparato.

Voglio farti vedere con i miei occhi – se solo potessi.

Se solo potessi portarti oltre confine e farti ammirare il blu con le stelle, le stelle che ogni tanto appaiono anche qui.

Quelle stesse stelle sono uguali dappertutto e basta guardarle per essere collegati. Il mondo è così piccolo.

Se solo potessi farti vivere le stagioni che vivo io dal ponte. Lo fotografo ad ogni cambio, ad ogni ora, all’alba e al tramonto, per farne un giorno una mostra personale di esposizione del tempo.

Voglio portarti a vedere le casette buffe e ogni altro dettaglio che del paesaggio colgo, dal finestrino del mio autobus.

Quando si fa sera e cala la notte, e qui a volte cala molto presto, vedo le luci dei pub brillare e penso a quante passeggiate faremmo, a ciò che potremmo dirci, a cosa potresti notare.

C’è una statuina, in quella piazza, di una piccola Anna Frank, che ho scoperto per caso. Quasi non si vede, abbagliata dalla bellezza della chiesa sconsacrata di fronte a lei, e dal venditore di finti panini italiani al suo fianco che fa capolino durante il giorno.

Voglio portarti a vedere i miei recinti e il mondo che racchiudono. I tetti strani e spioventi, le mega ville che pensi costino una fortuna e invece tutti potrebbero avere, i giardinetti perfetti da Mulino Bianco.

Voglio farti vedere che razza di ragni giganti ci sono da queste parti e come ho smesso di avere paura di loro. Come ho dovuto ingegnarmi a combattere contro vermi, e parassiti, e zecche, e topi.

Vorrei farti vedere quanto ho scoperto di essere diventata forte, quante cose non sapevo di me e ho imparato.

Voglio portarti a vedere le immagini riflesse sui canali. Farti vivere l’ebbrezza di una casa storta e di un waffle aggrovigliato nell’unto.

Voglio spiegarti cosa c’è davvero in un coffee shop e come cambiano le percezioni. Il primo giorno vivevo in una delle città più ambite del mondo, il quarto mese vivevo in un posto come un altro.

Voglio farti vedere, però, come anche in un posto come un altro può sbucare un tramonto all’improvviso, con un sole che sembra un rosso d’uovo e ti lascia così a bocca aperta che pensi che, oh sì, hai scelto proprio una buona città per le tue ispirazioni.

Voglio farti vedere le gocce di pioggia che si fermano sulle ragnatele. E paragonarle alle gocce di pioggia che si fermano sulla sabbia d’estate.

Voglio spiegarti dove fa capolinea l’autobus, che significano quelle parole e dove mangi davvero italiano.

Voglio vivere con te la malinconia dell’Italia, pensandola da lontano, e decidere alla fine di farci un brindisi.

Voglio farti assaggiare il vino con il tappo a corona. E ti prego, non dire niente, perché il tappo a corona non è nulla dopo che hai visto un Pinot blu.

Voglio che tu veda le striature del cielo, certi tramonti di un colore pari a quelli che appaiono dal lungotevere e ti fanno dire oh sì, eterna Roma mia, mai nessuno ti sostituirà.

Voglio farti provare gli oliebollen quando fa freddo. Assaggiare le bitter ballen, il rotolone alla pasta di mandorle che mi piace tanto, e i poffertjes che ancora mi sono sconosciuti.

Voglio farti vedere come il Natale si dilata da settembre a fine anno. Voglio farti sentire che aria tira, che cos’è una cena di famiglia il 5 dicembre. Voglio farti vedere quanto americano c’è negli addobbi casalinghi.

Voglio farti vedere così tante cose che non so se una vita basterebbe.

Ma vorrei che vedessi attraverso il mio cuore. Che respirassi la mia aria, la neve d’inverno, la brezza sulle maniche corte di maggio.

Vorrei che sapessi come si sta ad essere lontani da quella che hai sempre chiamato casa, anche se lo sai, a pensare in una lingua diversa da quella in cui scrivi, anche se lo sai, a raccontare i tuoi sentimenti in una lingua diversa da quella in cui vivi.

Vorrei dirti di come si sta stretti a chiedere aiuto in lingua straniera. Devi cercare sul vocabolario per essere preciso. Devi imparare a razionalizzare anche il dolore, fisico e interiore. Ma anche questo lo sai.

Vorrei che sapessi che tutto è facile e normale, come se la vita fosse sempre stata questa, ma allo stesso tempo tutto è strano e irreale, come se la vita fosse una bolla. Una bolla che non ti permette di appartenere più a nessun luogo e a nessuna nazione. Hai solo la certezza di appartenere a te stesso. Fuori dalla tua figura, i vecchi amici non ti riconoscono più il diritto di essere italiano, e i nuovi amici ti riconoscono solo come straniero. Alla fine, sei altro.

Ma immagino che questo sia il prezzo da pagare, quando scegli di essere via.

Eppure, sai che c’è? Io resto io. Con la voglia di vederti, con la voglia di abbracciarti, con la voglia di portarti nel mio mondo.

Perché, per la prima volta, raccontare non mi basta.

Vorrei che tu sapessi che sto bene.

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Cinque nazioni a cena con me: l’internazionalità è a tavola

Ho messo questa bella foto di cibo italiano al solo scopo di invogliarvi a leggere l’articolo.

In realtà, oggi parliamo sì di cibo, ma di quello quotidiano, e non di quello che vorrei, con quelle belle fettine di prosciuttino, yum.

Allora, oggi sono andata a fare la spesa in un supermercato turco.

Volevo sapere cosa vendono, cosa c’è di caratteristico e, soprattutto, cosa c’è di turco.
In Olanda è normale trovare cibi misti in un supermercato qualunque, da AH (Albert Heijn), a Jumbo, a Dirk – che sarebbero i Conad, Coop ed Esselunga della situazione.
Capirete che un supermercato che si dichiara turco attiri la mia attenzione curiosa come sono, e pure tanto.
Primo impatto: è tutto costosissimo. Madò. Hai capito li turchi.
Più costoso di un supermercato olandese. E no, non sono le spese di importazione, alcuni di quei prodotti ci sono già alla Coop locale e costano meno.
All’ingresso ho trovato mega cassette di frutta e verdura come quelle dei mercati generali.
Dentro, ho trovato il gotha dei prodotti turchi.
Un enorme bancone, ordinato per il lato lungo della struttura, e animato da un inserviente (un tizio vivo), ospitava cibi pronti come in rosticceria. Ovviamente turchi, quindi non ho capito cosa fossero.
Non ho chiesto perché il mio olandese non è a un livello tale da poter chiedere “scusi, che cos’è questa cosa” e sentire la spiegazione in olandese con accento turco. Senza contare che io non posso mangiare pesce. Non so se in Turchia si mangi pesce, ma meglio non rischiare, quindi ho tirato avanti.
Alla fine del bancone, lo stesso tizio vivo gestiva anche il reparto macelleria, la slagerij. Certi tagli di carne che il mio amico Adriano direbbe “addio Roma, vado via, da zero a 100 km in 5 secondi e senza rancore”. Grandi, spessi, di taglio magro e basso-basso costo.
Ho tirato avanti, perché ero entrata per curiosare, ma ci devo tornare per quella carne, promesso.
Venti minuti, per girare tutti gli scaffali pieni di ogni ben di dio, o almeno credo, perché era scritto tutto in turco, quindi, in effetti, non saprei a quale ben di quale dio io stessi ammiccando esattamente.
C’era l’angolo pentolame, come Mondial Casa, o come Panorama oppure Auchan. Sia mai che ti si rompe un bicchiere. Mi pare una cosa intelligente, da mettere in un supermercato.
Poca scelta di rotoloni da cucina, discreta carta igienica, mega pacchi di riso di ogni tipo e tanto henné.
No pane, a parte quello confezionato tipico turco.
La parte di sinistra, tirata su tutta a suon di noccioline, altra frutta secca e mais tostato.
Merendine, cornetti, nutella.
Un cella frigorifera con prodotti così ambigui che non ero sicura di stare decifrando correttamente, e poi avevo freddo, la temperatura era simile a quella delle sale operatorie, il mio cervello stava smettendo di funzionare. Sono uscita prima che il ghiaccio mi attaccasse, ma non senza aver sfilato l’unica confezione che ho capito.
Mi sono detta ‘meno male che non vivo in Turchia, morirei di fame. No beh, forse starei studiando il turco, non morirei di fame. Comunque shampoo si scrive simile, i capelli me li potrei lavare. E se invece per lavarli sto prendendo una salsa idratante di noccioline?’
Ovetti kinder alla cassa, il marketing degli scaffali non muore mai.
Se ho visto cose strane? Penso tutte, erano turche e incomprensibili.
Non ho visto cibo Dutch. O se c’era, dormivo. O mi hanno narcotizzata per non farmelo ricordare.
Gli impiegati erano turchi. I clienti sembravano turchi e parlavano turco. Una cassiera scocciata dalle fattezze turche faceva il conto in olandese.

Alla fine sono uscita con una spesa esemplare e con 10€ ho comprato questo, che vado ad illustrarvi:

Savoiardi tipici turchi:
Wafer al cioccolato fondente tipici turchi:
Cellentani turchi e conchigliette turche, marca diversa per provare come tengono la cottura:
Cracker salati in superficie turchi:
Affettato di tacchino turco (o ‘affettato turco di turkey’, il mio gioco di parole preferito di questo articolo):
Una confezione di rotoloni per la cucina
(photo missing, ci servivano e abbiamo subito aperto il pacco.)
Risultato:

I savoiardi sanno di savoiardi italiani, tengono bene inzuppati nel latte, ci devo fare il tiramisu, sono prodotti in Austria.
I wafers sanno di wafers italiani, con crema al cacao, proprio buoni, sono prodotti in Austria pure questi.
I cellentani sanno di pasta italiana, tengono la cottura perfettamente, che bello finalmente ci sbarazziamo delle solite penne! Io poi, che detesto la monogamia pastara nel piatto. Sono prodotti in Turchia, by the way.
Pure le conchigliette ho visto che sono prodotte in Turchia, mi daranno le stesse soddisfazioni, lo sento.
I crackers non saprei dirvelo perché il pacco è finito in camera di mia figlia.
L’affettato di tacchino turco non è prodotto in Turchia, ma ha un marchio di garanzia del consorzio Islamici in Germania.
I rotoloni per la cucina hanno una profumazione a base di detersivo, molto allettante quando ti servono per pulirti la bocca. Io sapevo che per l’alito pesante bastava non mangiare topi morti e lavarsi i denti con regolarità.

In sostanza, non sai mai cosa mangi, avoglia a leggere le etichette.

No, non mi do al bio-macro-veg-etc.
Sì, sono una sperimentatrice in tutto quello che faccio, dal lavoro al cibo. Non ho comprato niente di più solo per ragioni di allergie. (Per il momento).
Ho pensato a Federica, corrispondente dalla Turchia per Donne Che Emigrano, promessa sposa di un fantastico ragazzo turco, e mi sono chiesta “ma che mangia quella ragazza?”. Federica, se mi leggi, cosa mangi?
Tutto il mondo è paese e dovunque vai trovi sempre la Nutella. Incredibile.
Andare al supermercato è divertente!
Non siamo gli unici a produrre pasta vera.
Stasera ho cenato con un italiano, un turco, un austriaco, un tedesco e un olandese, e me la sono goduta.

Ho messo questa foto solo perché lo sapete che sono una fissata della spiaggia; in realtà, ho cenato a Utrecht.

Ps.
La salsa idratante di noccioline non esiste.
Almeno spero.
Settembre 2017
SolitudebyIsacGoulart

Se avessi attraversato il mondo

(201709160050)
Se non avessi attraversato il mondo, ora non sarei qui.
Se non mi fossi slacciata le scarpe, non avrei provato la sensazione dell’acqua gelida di un torrente in agosto.
Se non mi fossi tenuta le scarpe, non avrei potuto camminare sui sassi.
Se non avessi attraversato il mondo, oggi sarei altrove.
In un mondo ‘altro’. Un mondo ‘diverso’.
Un mondo fatto di cose che non so e che non saprò mai.
Un mondo di scelte alternative, belle o brutte, bionde o brune, luminose o grigie.
Un mondo da bere o da prendere a morsi.
Se non avessi aspettato quell’autobus, quel treno, quella bicicletta, non avrei conosciuto l’amore.
Se non avessi atteso abbastanza il verde al semaforo, sarei morta da qualche parte, di quelle morti da distrazione con la testa tra le nuvole.
Se avessi avuto la testa tra le nuvole, se la avessi ancora, avrei visto e vedrei i gabbiani chiamarsi l’un l’altro, mentre disegnano spirali di aria nel cielo, e ci guardano dall’alto verso il basso, a tutti noi, che operiamo come formiche, nella più assoluta mancanza di libertà.
Ma se non avessi avuto la testa tra le nuvole, mi sarei persa le gioie più grandi della vita, tutte quelle che ho creato dal nulla, riflettendoci sopra con il cuore, l’istinto e l’immaginazione; tutti i castelli in aria costruiti su castelli di sabbia; tutti i minerali luccicanti in essa racchiusi, visibili solo mettendo la testa in una certa inclinazione.
Se mi fossi tenuta le scarpe, non avrei mai danzato.
Non avrei ballato con le stampelle. Non avrei sentito il variare delle superfici sulle quali camminiamo credendo di essere protetti, quando non lo siamo per niente, perché, se vuole, la natura spacca tutto, con la potenza delle sue radici.
Se non avessi conosciuto Benni, non mi sarei fermata a celebrarlo scoprendo per la prima volta la terrazza del primo locale che avevamo a disposizione in quel momento, il Gin Tonic che avevo da sempre ignorato, e il mio nuovo ricordo intimo da inserire nel barattolo dei preziosi che non aprirò mai o che, anche se aprirò, non si sfascerà mai perché contiene solo cose che sono già state tutte tatuate sopra e dentro di me.
Se non avessi la lampada di Wood, dovrei cercare con i miei occhi normali le malefatte che nascondete. Ma tanto le vedrei lo stesso.
Se non avessi attraversato il mondo, la nazione, la città, la piazza, il portone di casa, il salone delle feste, la cucina, il bagno e infine la camera da letto, oggi forse avrei smesso di pensare a una domanda che mi tormenta da qualche giorno: ma io, esattamente, cosa ho fatto fino ad ora?
Ora che queste parole scendono e rimbalzano con dolcezza, come un tappeto elastico piccolo e costruito al centro di un bosco, ora e qui siamo da soli, io con il tappeto elastico, le mie parole e la frase gettonata.
Se non avessi attraversato il mondo, o lo avessi fatto con te, o con te, o con te, oggi vivrei un altro mondo ancora.
Fatto sempre di scarpe.
Fatto sempre di puntate al mare ogni tanto, perché mi sto accorgendo maledettamente che, più cresco, più il mare mi mantiene in vita ed è straziante farne a meno.
Quello del mare è un altro mondo fatto di blu, e sole, e balli in 2 metri quadri. Di luci flebili. Di invito all’arte. Di volti, di ricordi lontani che si racchiudono in bolle di sapone e ti guardano sorridenti.
Ma cosa c’entra il tema del viaggio, con tutto questo?
C’entra, perché questo è un viaggio interiore. Che si svolge in movimento, con e senza calzature, raccontando di scarpe, di piazze e di posti, dove c’era chi io sono andata a prendere.
Per queste persone a volte ho combattuto, spogliandomi di pesi e pregiudizi. Sono andata controvento, ho volato, mi sono arrampicata, ho sfidato le leggi della fisica creandone di mie. Queste persone sono state avvolte in una coperta calda, con una tazza di bevanda calda. Quando sei convinto di sentire il freddo, la tazza calda ti serve.
Poi, lentamente, ho cominciato a ritirarmi. A incurvare la schiena, a guardare negli occhi ma con un sorriso invece di due, mentre il corpo si ripiegava su stesso, in maniera impercettibile.
Ho indietreggiato, nascosta tra le file. Ho guardato quelle persone mentre si divertivano, e smettevano di cercarmi. Lo facevano perché non ero più io quello di cui avevano bisogno. Io ero il gentile passaggio per l’altra strada, quella che si deve fare con un salto, o che richiede un ponte.
Io avevo quel ponte.
Avrei potuto scegliere di restare lì. A fissare il ponte, a guardare chi, dopo qualche tempo di festa e vita irrealizzabile, sarebbe comunque andato via, dietro alla voglia di scoprire cosa c’è dopo. Ho scelto di camminare, me ne sono andata lentamente, dopo la certezza che il desiderio era stato realizzato, una situazione sbloccata, un percorso compiuto.
Me ne sono andata.
Me ne sono andata e, a volte, qualcuno mi ha chiesto perché.
“Perché dopo aver lottato tanto, dopo aver combattuto, dopo avermi tirato fuori da dove stavo, semplicemente vai?”
Boh. Non lo so perché.
Forse perché il percorso, il percorso di entrambi, era finito.
Forse perché sono una solitaria.
O una senza aspettative particolari, che vuole aiutare quanto può.
O una con aspettative eccessive negli altri, che poi resta delusa e deve andare.
O una innamorata delle idee.
O forse, forse sono così e basta. Un mix di due immagini che abbiamo tutti dentro di noi ma che io faccio vedere: quella che cammina storta sui tacchi e se ne nasconde, quella che vede i giochi dei bambini e allo stesso tempo li odia.
Quella riconoscibile da una piccola riga che cammina per terra al suo fianco; è il segno di una lacrima, che sta fissa, scende lì, la accompagna. Quella lacrima è la dote d’oro, il filo di Arianna. La collana con cui vestirsi.
Quella lacrima ha poche dediche ma, più di tutte, è per me stessa: è la grazia per ogni cosa che ho trovato e che ha lasciato traccia quando ho proseguito.
Ricerca del nuovo e conta del tempo non sono in accordo.
Se avessi attraversato il mondo abbastanza, oggi me ne vorrei restare sdraiata come questa signorina, dolce, pensierosa su un pontile, con la coscienza a posto di chi ha lasciato andare la cose giuste.
Il mio viaggio non è ancora terminato.
photo credits: Pholwises, Peaceful solitude
Giacomo Del Colle Lauri Volpi in scena con Van Gogh La Discesa Infinita

FCO – AMS: in volo sulle note della musica

Io un compositore di musica classica non lo avevo ancora conosciuto.

Ho studiato violino, strimpello il pianoforte (i tecnici mi perdonino per la bassezza del mio modo di esprimermi), ho conosciuto musicisti di ogni genere musicale, ma il compositore di classica davvero, davvero, mi mancava.

La cosa bella è che questa intervista è arrivata in modo casuale.

Ero andata ad Amsterdam, a vedere uno spettacolo a teatro: ‘Van Gogh, la discesa infinita’. Una pièce teatrale tratta dal libro di Giordano Bruno Guerri, messa in scena da Paola Veneto e con un cast di attori che sembrano usciti dal libro di storia dell’arte.

Giacomo musica il tutto.

Per farla breve: mi sono innamorata di quello che ho visto, ne ho scritto una recensione, ho contattato la crew, e com’è come non è mi sono ritrovata con Giacomo, di fronte a una birra, con il suo amico e socio Marco Cucco che in tutto questo vive ad Amsterdam, seduti al Bar Lebowski di Utrecht.

Eh sì, esiste un Bar Lebowski.

Ok. Facciamo che tu ti presenti e mi dici chi sei e cosa fai.

Ok. Faccio il compositore di musica classica, da 12 anni. Ho lavorato in RAI, ho cominciato sonorizzando la televisione, cioè documentari e spettacoli tv. Poi ho fatto pubblicità con Antongiulio Frulio, ero il suo assistente. Quando lui è andato negli Stati Uniti, io sono rimasto a Roma, in un giro che ormai cominciavo a conoscere bene. Lavoravo già con la computer music, in un’epoca in cui non esistevano software campionati, quindi capisci che la scelta della Produzione era pagare un sacco di soldi a un’orchestra vera, o dare a me un decimo del budget. I primi anni ho lavorato davvero molto.

Questo era quello che volevi fare da grande?

Sì, assolutamente. Anche se tutto è un’evoluzione, man mano che vai avanti scopri nuovi punti di arrivo.

Compositore di classica, hai detto. Cosa hai studiato?

Ho un diploma di composizione e flauto traverso al Conservatorio di Santa Cecilia.

Tu vivi e lavori a Roma?

Anche, sì.

Hai mai pensato a trasferirti definitivamente?

Eehh… Intanto devi tenere conto che mia madre è spagnola, per me il concetto di doppia nazione è normale. Nel 2008 ho pensato di andare a vivere in Spagna ma, per una serie di circostanze indipendenti da me, non lo ho più fatto. Fino ad adesso sono rimasto a Roma e al momento, con Spettro Sonoro, il progetto che condivido con Marco, stiamo collaborando con Sky, anche se Marco è già fisso in Olanda; ma riusciamo a gestire i lavori.

Va sempre tutto liscio? Non si risente della crisi?
Alcuni periodi si fatica un po’. Al momento non potrei farmi una famiglia: io ho 36 anni, è un’età in cui cominci a pensare anche a queste cose.

E questo non è un incentivo a trasferirsi?

Assolutamente sì! Ho pianificato regolarmente evasioni stile Fuga da Alcatraz, ma alla fine succedeva sempre qualcosa che mi tratteneva in Italia. C’era sempre qualcosa da fare, o da lasciare.

Hai detto che alcuni periodi si fatica un po’. Come si affronta il possibile buio che compare all’orizzonte?

Nei momenti morti, componi comunque. Ma per te stesso. Setacci un aspetto interiore della musica.

C’è una tecnica che si segue per comporre, o si va a sensazione?

C’è una tecnica. Ma la musica sta cambiando, c’è una tecnica precisa a seconda delle varie cose: dipende da quello che devi fare. Se componi per te, l’impresa più stimolante è che la tecnica te la cerchi tu. Per esempio, se vuoi fare un pezzo sui semafori di Utrecht, decidi di sonorizzare verdi, gialli, rossi… ma è una roba tua, sarà difficile da vendere.

Suona tutto come molto tecnico. Come vedi il rapporto tra il linguaggio della musica e quello della matematica?

La matematica è la parte preponderante. Nel futuro io mi immagino a collaborare nelle università, come ricercatore, a stipulare un programma che funziona in suoni sul DNA.

E poi che ci fai?
Niente, lo tengo per me.

Parliamo del motivo per cui ci troviamo qui io e te in questo istante. Come sei arrivato a comporre Van Gogh?

Cerco di riassumerti la storia. Giordano Bruno Guerri scrive il libro “Follia? Vita di Vincent Van Gogh”, dove sviluppa una tesi parallela a quella ufficiale, ossia che Van Gogh non fosse folle ma si fingesse tale per avere i mezzi per continuare a dipingere. Paola Veneto decide di fare promozione al libro, mettendo in scena una pièce teatrale. Contatta, allora, Alessandro Parise. Siamo nel 2009. Alessandro mi chiama, perché in scena serve un musicista.

Un incontro casuale di anime.

Sì. Abbiamo cominciato facendo prove, tentativi. Non avevamo fondi, solo un pianoforte. Ci siamo messi tutti insieme a leggere il libro e a sottolineare i punti che dovevano essere maggiormente valorizzati secondo Paola, che è sì la regista, ma ci ha sempre lasciato carta bianca nell’interpretazione. Quindi lo spettacolo è nato un po’ così: con pezzi che erano bozze da libreria fissate sull’hard disk, bozze come quelle scritte nei famosi momenti no, di cui parlavamo prima. Avevo un Maestro che diceva “la musica è come il maiale, non si butta via nulla”.

Il tuo Maestro a quanto pare aveva ragione. I linguaggi della comunicazione sono decisamente imprevedibili. E anche la storia di questo spettacolo lo è: se ho capito bene, è nato come attività promozionale e a distanza di 8 anni ancora gira.

Sì, ha avuto un successo inaspettato. Abbiamo girato palchi importanti, siamo andati anche a “Cortina Incontra”.

E perché lo offrite ancora in maniera gratuita?

Lo spettacolo è rimasto a titolo gratuito per rispettare il motivo originale, cioè la promozione del libro. Ma poi ci piace tantissimo tutto quello che si è creato, e anche il gruppo di lavoro, la storia stessa. Alcune date le abbiamo fatte senza percepire compenso.

Van Gogh è cambiato, nel corso del tempo, vero?

Van Gogh è cambiato tre volte. Il nocciolo duro è Paola-Giordano-Alessandro-io.

Perché Van Gogh è cambiato?

Perché come dice Marco, il mio socio, il protagonista muore alla fine della rappresentazione, ahah! Il Vincent attuale, Antonio Gargiulo, sembra il Vincent vero, è impressionante. Lo ha chiamato sempre Alessandro.

Ora che avete girato per Amsterdam, è capitato che qualcuno fermasse Antonio o lo guardasse incuriosito?

Di base no, perché lui si confonde bene con gli olandesi, sembra uno di loro. Ma c’è stato un momento in cui siamo passati accanto a un negozio con alcune forme di formaggio che avevano il viso di Van Gogh, lui si è messo vicino al formaggio per farsi una foto e alcune persone si sono fermate per fare una foto a lui e al formaggio!

Perché questo spettacolo viene fatto ancora, a distanza di quasi 10 anni?

Perché ci piace farlo. Anche se ognuno di noi ha un altro lavoro, quindi riusciamo a riunirci solo ogni tanto. Ma questa volta è stata diversa.

Perché?

Forse perché all’estero non ci eravamo mai esibiti. Ed eravamo pure nella terra di origine di Van Gogh. Tutte quelle frasi, le pagine di libro, le battute di scena, le stavamo vedendo nel loro contesto naturale. Avevano una potenza diversa. Per la prima volta abbiamo potuto dire “andiamo a vedere dal vivo le terre in cui Vincent ha vissuto”.

Deve essere stato emozionante.

Lo è stato. Eravamo anche stremati fisicamente. Abbiamo avuto una giornata lunga, non abbiamo dormito per le 24 ore precedenti alla rappresentazione. Sono successe cose per le quali uno direbbe “hey: che situazione ostile”.

“Hey che situazione ostile”: e certo, chi non lo direbbe?

Fa molto western, ahah… Abbiamo anche una chat di gruppo, che si chiama “Van Gogh ad Amsterdam”.

Beh, da spettatrice, ti posso dire che quelle emozioni le avete comunicate tutte. Mischiando note, parole, sentimento, luci, danza e volti difficili da dimenticare.

Grazie!

No, grazie a voi. È stato un piacere scoprirvi, e spero di rivedervi di nuovo all’opera.

Il piacere è stato nostro, di esserci potuti esibire ad Amsterdam. Tra l’altro, una città che si è rivelata di grande ispirazione.

Io Amsterdam ormai la conosco da un po’ e so quanta ispirazione può dare.

Ma in questo caso, ciò che mi ha ispirata insieme a tutto il resto è stata la musica di Giacomo.

C’è un piccolo assaggio di quello che ha prodotto, un brano di due minuti che lui mi ha gentilmente concesso in utilizzo per la recensione che ho scritto sullo spettacolo: lo trovate qui, se volete ascoltare qualche nota. Davvero ve lo consiglio.

 

Ps. Volete sapere com’è andato il resto dell’intervista e cos’altro ci siamo detti con lui e con Marco, il suo socio? Cliccate qui.

foto Paola Ragnoli e Giacomo Del Colle Lauri Volpi insiemeUna versione estiva di me e Giacomo a Roma, nel mitico Bar Vanni. I sorrisi hanno abbagliato la camera, per questo la foto è venuta sfocata.