(201704162322)
Sono le 20:40 di un qualunque giorno di aprile e la luce diurna che trapassa le finestre mi confonde e mi depista sull’orario della cena.
Cerco di immaginarmi Io, a Roma. A volte mi manca il mio divano. Mi è mancato recentemente; esattamente, tre giorni fa. Il suo colore sabbia. Il suo tessuto un po’ ruvido, il suo stile squadrato, che ben si intonava al salotto. Era un divano letto. Era un salotto armonioso, studiato con tanta cura e tanta passione. Ogni cosa aveva una tinta.
Tutta la casa aveva una tinta. È stato il lavoro di una vita, letteralmente, sistemarla.
A volte mi manca quella casa, terribilmente.
Ma oggi sono qui, con la luce diurna che mi depista e lo farà ancor di più quando arriveremo a giugno, e alle 23 ci sarà ancora luce e io non concepirò come in Italia possa già essere buio.
A volte sento di esserci, lo sento con ogni fibra del mio corpo.
A volte invece non sento niente. In parte perché mi sembra normale, in parte perché mi sembra automatizzato.
A volte mi sembra di non essermene mai andata e di stare in vacanza. A volte, di essere qui da una vita. A volte mi sembro chiusa in una parentesi o intrappolata dentro un muro. A volte mi sembro libera come una fenice a cui finalmente hanno aperto le gabbie.
Guardo con nostalgia alla mia prigione, non distinguendo più se prigione sia questa o quella vecchia.
Mi mancano le passeggiate al parchetto sotto casa, che mia madre ha sempre odiato chiamare parchetto. Il parchetto, il giacchetto… questo intercalare romano che non sopporta e che è stato il mio crescere.
Mi manca il paesaggio dalle finestre del salotto e della camera da letto. Il garage con le serrande dei box, i kundalini che facevano yoga e battevano il gong. Ricordo una mattina, non erano nemmeno le 8 e una musica ha cominciato a risuonare per tutto il cortile: sonno terminato.
Mi manca lo spazio strano della cucina con i suoi accessori, mi manca il bagno dipinto di arancione. Il caos artistico. Le mie tende viola scuro, il mio quadro di New York: i due oggetti che avevo voluto fortemente. Sono stata ferma 40 minuti a ragionare se volessi spendere 50 euro per quel quadro oppure no.
Mi manca l’emozione che provavo l’anno scorso in questo periodo, quando cominciavo a contattare le scuole e l’idea dell’Olanda si faceva concreta. Ogni tanto mi balzano al cuore quei momenti. L’aria che si respirava a Roma, la polvere delle strade del mio quartiere, quell’odore di stantio che stava avvolgendo tutto. Quel bisogno disperato di partire. Di scrollarsi di dosso la sensazione del vuoto. La stessa sensazione che ogni tanto appare qua, ma con piglio del tutto diverso, perché qui per il vuoto non c’è spazio – qui non puoi permetterti il lusso di sentirti morire.
Un anno fa ricevevo le prime mail di risposta, prendevo coscienza dei costi delle rette delle scuole internazionali. Accantonavo ogni fantasia e, a ogni settimana che passava, ridimensionavo le pretese, bruciavo i sogni e sperimentavo una nuova alternativa. Tutto, pur di andare.
Lentamente, dalla vita agiata e la proiezione dell’impossibile, mi spostavo sul piano della scelta consapevole e pianificata. Contavo i soldi. Vendevo i mobili. Vendevo tutto quello che avevo e in parte anche quello che ero.
Finii per sdraiarmi al centro di un salotto spoglio, da dove avevano appena portato via l’ultimo mobile, il mio tavolo bianco allungabile e un po’ incastrato con delle bellissime sedie in legno naturale non trattato. Mi lasciai lì, a fissare il soffitto, a sentire la musica, a tentare di fare una foto a 360° di quel che vedevo, ma non ci riuscii. Mi resta solo una polaroid nel cuore. La mia vita era ricominciata in quel salotto spoglio, base nuda piena di crepe, così tante che erano perfino sul soffitto. Poi si è spezzata. Ho ricominciato da terra.
Ogni cosa continua a scorrere, nonostante tutto. Nonostante quello che uno possa pensare o desiderare, nonostante le amate abitudini, la casa che mi possa mancare, i miei cuscini, il mio copriletto, le ore, il tempo per comprare quelle cose. I miei ricordi della mia vita. La stessa vita che oggi mi vuole a potare le piante in giardino e a guardarmi il corpo ogni volta che rientro in casa per controllare che non ci siano zecche su di me. Io, ragazza di città. Il venerdì è il giorno deputato alla botanica, me lo sono scelto io. Sto imparando un nuovo sistema per scaricare le energie, mi appassiona, mi massacra, mi stanca.
Quello che non riesco a cambiare è il mio orario spagnolo. Qui cenano tra le 18 e le 19, io cenerei anche a mezzanotte. Ma per ritmi familiari devo impormi una digestione in orario.
E devo impormi di guardare l’orologio per capire che ore sono, invece del tramonto del sole.
Io, che l’orologio non lo ho mai portato.
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