Alex Perez - Above the fears

Nell’attesa della domenica

(201510051539)

Stamattina non pioveva.
Era nuvolo, ma si sapeva già che le gocce avrebbero cominciato a scendere. Si avvertiva nell’aria, si sentiva nel profumo della terra che si incrocia all’asfalto.
Le macchine lo rigavano, lasciandone intravedere una sottile polvere di catrame che invadeva i polmoni e i nostri respiri.
Stamattina ho sbagliato fermata dell’autobus per la prima volta. E’ un tratto che faccio spesso, guardavo bene le solite indicazioni ma ho sbagliato comunque. Ero sovrappensiero.
Sono tornata indietro, sono scesa di fronte all’ospedale e sono andata a fare la consueta fisioterapia.
Oggi la gamba mi fa molto male, camminare è difficile più del solito.
E, in barba al dolore, quando sono uscita ho sbagliato tragitto, di nuovo. Questa volta l’intero autobus. Ne ho scelto uno nella convinzione che avrei comunque raggiunto il posto di lavoro.
Mi sono ritrovata in un’altra parte della città; sono dovuta tornare indietro.
Sono arrivata molto tardi.
Ne consegue che oltre al sovrappensiero vorrei essere altrove.
Ho desiderato andarmene, senza rendermene conto.
Ma tentativo di evasione vs. doveri = 0 a 10.
E quando mi è stato fatto notare che stavo chiaramente dando segnali di fuga, ho provato a immaginare dove stavo pensando di andare. In quale parte di mondo. Quanto lontana da qui. Cosa succederebbe se io una sera, semplicemente, non rientrassi; se io una mattina, semplicemente, non mi presentassi a lavorare. Sarei probabilmente licenziata, dovrei andare a suonare alla porta di qualcuno che avesse voglia di accogliermi e darmi rifugio, mi ritroverei ben presto senza soldi. Stravolgerei la vita di mia figlia.
Non si può fare.
Solo un’altra volta, in passato, mi sono ritrovata smarrita per strada. Lei era piccolina di pochi mesi, io uscii di casa con il passeggino, girai un po’ di angoli e a un certo punto non fui più in grado di rientrare: per un paio di minuti non sapevo dov’ero. Né sapevo dov’era casa.
Poco tempo dopo la lasciai per sempre.
Nel mio tragitto di oggi, nel punto in cui mi sono persa nel limbo, ho avuto modo di farmi infastidire dal vociare degli umani sui mezzi pubblici che ci fanno sentire tutta la loro vita al telefono come se stessero parlando dal bagno di casa loro.
Sarà che io mi sento così riservata, ma che bisogno avete di urlare tutto per strada.
Oggi è ancora lunedì.
Un lunedì perpetuo che si propagherà a elastico per i prossimi giorni a venire. Un moto ondoso che potrà portare a disgregazione. Una bolla spaziotemporale in cui le emozioni resteranno sospese, tra le colpe, i sensi di colpa e lo sguardo vacuo. Mentre io, a tratti, non sento niente.
In attesa di quell’unica scossa che mi prende ogni singolo osso e tessuto del corpo e mi fa sentire bene, e viva.
In attesa della domenica.

photo credits: Alex Perez – Above the fears

Federico Beccari - no title

Speculum

(201510021236)

Questo non è un nuovo post, ma un nuovo posto. il mio, che sto cercando fortemente e che in questi ultimi mesi si è fatto prepotente.
Questo è il nuovo posto dove ammetto, a me e a quei pochi che mi leggono, che così non va, niente bene.
it’s not just finding love in a hole. it’s a matter of finding someone to keep yourself warm.
le persone che come me hanno vissuto una vita segnata fin dalla tenera età non sanno comportarsi da grandi. imparano presto a discernere, al punto da esercitarsi a staccarsi dal proprio corpo, per ‘vedere cosa succede ad essere nella vita di qualcun altro’. un disagio enorme, dovrebbero esserci frotte di psicologi e analisti ad inseguirmi per questa affermazione che riguarda la mia infanzia.
ma come le cose si ripercuotono su un adulto, nessuno di loro lo sa se non per teoria (e fortuna loro).
chi riesce a crescere, da quel momento in poi lotterà alla ricerca di modelli ripropositivi. sarà fortunato se riuscirà a sopravvivere. vivrà nell’allerta h24 di un braccio che si alza all’improvviso, di una voce che si alza all’improvviso, di un rimprovero, di un giudizio. noi saremo sempre pronti ad applicare il gioco che facevamo da piccoli, lasciare il corpo e fare un giro con la testa, perché ‘quel corpo in quel momento non è il mio’.
noi non saremo capaci di costruire relazioni sociali. andrà male con i colleghi, con gli amici e, punta naturale di diamante, con i partner.
noi ci rifugiamo, in mondi nostri, dove nessuno entra. siamo le note delle musiche. o siamo libri. siamo quel sogno di diventare qualcuno che, ancora una volta, verrà smontato con prepotenza e perderemo un altro punto che ci allontana dall’autostima.
siamo quelli che ogni tanto si rendono conto che sono meglio di ciò che credono per il solo fatto di essere qui, di essere sopravvissuti.
siamo quelli con l’incubo della morte. dell’assassinio, dell’incidente, della violenza, del dolore fisico, ancora una volta. siamo quelli che non dormono, nemmeno con ausilio di qualcosa.
siamo quelli che a un certo punto ci stanchiamo di soffrire e cerchiamo un partner che sia l’opposto di noi, calmo, delizioso, solare, sereno, sorridente, pieno di voglia di crescere e lo aiutiamo. ci buttiamo a capofitto perché il suo modo di essere è quello che ci serve – magari ci aiuta a venirne fuori. e in parte magari ci riesce anche. ma il tempo è un giudice severissimo che non fa sconti e non aspetta e prima o poi ti presenta il conto e ti chiede ‘e ora che hai avuto quello che credevi di volere, sei sicura che vada bene? sei guarita?’
no, non sono guarita. quelli come noi non guariscono, e forse non possono e non devono appoggiarsi alle spalle di altri che, in fondo, non ti stanno nemmeno tenendo perché non capiscono di cosa parli e pensano che è ok ascoltarti ogni tot.. mentre tu li aiuti a costruirli, tutte quelle cose che non riesci a fare per te e le fai allora sull’altro.
forse, e dico forse, le persone come noi hanno bisogno di persone dalla trama complicata come noi. non per deprimersi insieme, ma per trarre il buono che l’altro ha imparato e provare ad applicarlo per sé, ma soprattutto per sentirsi spiriti in comunione: del genere ‘sì, sento che mi capisci’. per sentirsi davvero capiti, e sentirsi allora davvero liberi. abbandonando tutte le maschere, le parole non dette, i racconti non fatti – perché non c’è vergogna ma solo il tuo speculum. è bello ipotizzare che viaggiando insieme come un solo individuo si stia meglio, si migliori e si guarisca davvero per certi aspetti. e se non guarisci, lo speculum non ti fa domande, non ti guarda strano, non ti mette fretta, non ne fa un nodo. ma, semplicemente, ti accetta per quel che sei e si incastra in te.
se in tutto ciò bisogna per forza trovare una definizione di amore, allora forse è questo, quest’ultimo passaggio. e per quanto ci piaccia ricercare e trovare definizioni oggettive, non ne avremo mai una su certi argomenti. forse l’amore è solo l’equilibrio tra le parti, che non si perde mano a mano che subentrano i ricordi e il passato, e senza alcuna -tassativo- volontà di cambiare l’altro.

photo credits: Federico Beccari, senza titolo