Amnesty_International_-_It_Happens_When_Nobody_Is_Watching

Il silenzio delle donne

Questa era una campagna affissioni di Amnesty International di qualche anno fa. La telecamera che vedete era vera, registrava i movimenti delle persone e modificava le immagini.

C’è stato un momento storico in cui siamo stati capaci di grandi battaglie. Quando il mondo non ci piaceva, ci siamo alzati e abbiamo urlato a gran voce di essere ascoltati. Lo abbiamo fatto in Italia, lo abbiamo fatto all’estero. Abbiamo avuto il supporto dei giornalisti, delle telecamere, dei politici, delle classi dirigenti.
Ci siamo scandalizzati, indignati, abbiamo pianto, reagito, camminato, manifestato, scioperato.
Ci siamo crocifissi in nome dell’uguaglianza dei diritti e delle dignità di vivere ed essere liberi. Abbiamo fatto il ’68, abbiamo combattuto per il divorzio, per l’aborto, per la democrazia. Abbiamo chiesto di essere governati nel rispetto del voto che abbiamo dato.

Abbiamo chiesto parità dei sessi. Che è stata interpretata malissimo da certe donne, e malissimo da certi uomini. L’uguaglianza che abbiamo invocato si è trasformata in un atteggiamento aggressivo -definito, malamente, ‘femminista’- da parte di donne che hanno giocato a fare gli uomini ed a mettersi i pantaloni, cambiando le gonne in tailleurs restrittivi.
Non mi pare che abbiamo ottenuto molto.

La parità non è questa.

La parità dovrebbe essere data dal fatto che possiamo fare il chirurgo, il magistrato, il direttore di giornale, il responsabile di partito, il capitano d’industria.

La parità non è cucinare stirare e lavare i piatti in due, portare la giacca in due, fare a pugni in due.

La parità dovrebbe essere data dalla libertà di uscire e girare per le strade senza paura.

Ecco, io non mi sento affatto libera.

Io ho paura di uscire e di far uscire mia figlia, e come me molte altre donne, che non vogliono rientrare a casa la notte da sole, e a volte non vogliono girare nemmeno di giorno da sole.

Vi faccio un piccolo elenco di casi umani recenti, estratto scelto che vi invito a leggere, perché sarà il caso che vediate in un colpo solo che cosa sta accadendo:

– il 30 novembre 2011 un uomo uccide suo figlio di 3 anni, mettendolo in lavatrice per punirlo perché il bambino si è comportato male all’asilo;

– il 17 gennaio 2012 un uomo uccide la moglie di 33 anni facendo passare la morte della donna come un tentativo di rapina finito male, dopo che –complici i suoi amici- tenta l’occultamento di cadavere ma viene scoperto dai vicini di casa;

– sempre il 17 gennaio una ragazza di 24 anni viene rapita, stuprata e poi arsa viva (non si sa mai, magari le veniva in mente di parlare);

– il 4 febbraio una donna di 50 anni è violentata a casa sua, durante una rapina;

– il 12 febbraio una ragazza di 20 anni è stuprata e lasciata nella neve – riporterà 48 punti di sutura, le ricostruiranno anche l’apparato digerente, l’avvocato difensore del violentatore dichiarerà che si è trattato di un rapporto amoroso consensuale;

– il 29 febbraio un uomo viene arrestato per aver massacrato di botte una donna di 53 anni – ancora sconosciuti i motivi;

– l’11 marzo un uomo ubriaco suona in una casa di sconosciuti, picchia il giovane che gli apre la porta, entra e violenta la donna di 36 anni che sta dormendo all’interno;

– il 14 marzo un uomo di 77 anni colpisce la moglie a martellate, staccandole una parte di orecchio;

– ancora il 14 marzo una ragazza è violentata al distributore automatico delle sigarette, di fronte agli occhi della sua amica che invece riesce a scappare e a dare l’allarme;

– sempre il 14 marzo viene resa pubblica la notizia di una ragazzina di 13 anni costretta ad avere rapporti sessuali con 2 quattordicenni, alla presenza di altri 3 tredicenni;

– il 16 marzo una donna di 47 anni è stuprata in un parco, di mattina;

– sempre il 16 marzo una ragazza di 22 anni viene presa a martellate dal suo convivente, il quale, già che c’è, uccide anche il bambino di lei, di anni 2;

– il 18 marzo una ragazza di 18 anni è prima picchiata e poi gettata dal ponte dal suo ex fidanzato, che proprio non si rassegnava alla fine della loro storia d’amore.

Basta così.

Non so voi ma io non riesco più ad andare avanti con l’elenco, né a rileggerlo, né a tollerarlo.

Per questo ne scrivo qui, una volta per tutte, in giorni in cui al telegiornale non ve lo stanno dicendo, affinché ognuno faccia ciò che è nel proprio potere e nella propria coscienza.

Non si tratta di stranieri o italiani, non si tratta di maschi contro femmine. È indubbio che ci sono donne violente, così come però è indubbio che gli uomini lo sono in misura maggiore.

Ne scrivo qui e mi appello a voi che leggete, perché è intollerabile dire che siamo in un mondo difficile, che queste cose ci sono sempre state e che noi non possiamo fare nulla. Non è vero che non possiamo fare nulla.

Possiamo alzarci e indignarci seriamente. Possiamo chiedere ai nostri compagni di aiutarci, di schierarsi con noi, di scendere in piazza, firmare un foglio, fare protesta fuori dal Parlamento.
Possiamo chiedere ai politici di prendersi in carico queste lotte così come si sono fatti carico di votare la legge sull’aborto.

Possiamo pretendere il rispetto della dignità umana, perché dopo una violenza, sia essa psicologica o fisica, la mente di una donna si appanna e le viene strappata ogni voglia di sorridere.

Ma anche il silenzio gliela leva. Il silenzio, le teste abbassate, la mancata condivisione di notizie come quelle riportate – non ce ne facciamo nulla della vostra solidarietà privata, se non la sbandierate pubblicamente.

Possiamo chiedere alle donne che hanno notorietà e potere in questo paese di dire qualcosa, qualcosa che non sia SOLO ‘basta alle vallette donne oggetto in tv’, ma qualcosa che sia ANCHE  basta alle donne oggetto.

Possiamo chiedere a tutti i creativi, i comunicatori, i pubblicitari, di cambiare linguaggio di vendita e smettere di incitare continuamente ai doppi sensi. Il consumatore non è certo scemo, ma se non ricordo male la pubblicità dovrebbe fare leva sui bisogni o, in alternativa, crearli.
Perfino i comici, una volta, facevano ridere senza volgarità. Oggi pare che, senza parolacce, non si possa andare in onda.

E quindi: che ognuno faccia la sua parte, per favore. Penso che questo possiamo chiederlo.

Perché le donne sono anche le vostre, i bambini sono anche i vostri.
Se vi indignate per cinque minuti e poi tornate al vostro silenzio, non siete diversi da chi ha tentato di stuprarci ieri e tenterà di farlo domani.

E statisticamente, in qualsiasi forma, prima o poi potrebbe toccare a ognuno di voi.

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Piccolo puntino.

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E’ lei. Un piccolo puntino ripiegato su se stesso. Viene da lontano, sola, trascinando con sé a fatica una valigia consumata, piena di ombre e di parole. Ha il volto scavato, il corpo chiuso, i capelli di fronte al viso. Ha uno sguardo macchiato, con cui non vede nessuno. Fissa davanti a sé con occhio vitreo il mondo, che le sta scivolando addosso e che le corre intorno. E’ in una campagna deserta ripiena di un cielo plumbeo. E’ al centro di una piazza, chinata in ginocchio per la stanchezza e la gente la guarda come fosse una poveraccia; una nota di compatimento e di paura, per il non voler sapere. E’ lei, trasparente eppure pesante, nonostante i suoi pochi chili che pesano come ferro, o forse sono molti e pesano come ali. Le ali che vorrebbe avere, per quella valigia che vorrebbe lasciare, e non le si stacca dalla mano. Ogni volta ha preso qualcosa da chi ha incontrato, ed ogni volta ha dato tanto di quello che aveva -ma qualcosa è stato un furto-, fin dall’inizio, quando era piena di buone speranze e la valigia ricca di farfalle. Ha chiuso mille e più porte, non è riuscita a tenere quelle giuste. Ha aperto solo quelle suggerite dalla ragione. Le ha sbagliate tutte. Non può più tornare indietro e vaga nel buio del vuoto, con l’intima speranza di arrivare ad un approdo, ma non sa nemmeno lei più qual è, e pensa che ormai non riuscirà a vederlo. E’ persa. Ha camminato sempre, ogni volta sempre più lenta, ogni volta le gambe più pesanti. Ogni volta la valigia più trascinata. Si è fermata quando la hanno fermata, per dare indicazioni e per sfamare chi le ha chiesto un pezzo di pane. Capitava sempre di fronte a qualcuno che aveva bisogno di un aiuto; a loro, la strada ha saputo indicarla. Nessuno sapeva parlare con lei. Nessuno la sentiva. Ealla fine, per sé, non ha nulla. Non è stata capace di costuire niente. Non cammina quasi più. E adesso provate a dirle che deve andare avanti.

tocatchawind_byStanOd

Stasera c’è vento

E’ venerdì. E lo faccio spesso. Scrivere di venerdì, intendo, ma come lo sto facendo ora non lo facevo da molto tempo e, ve lo posso confessare: sì, mi mancava. Molto. Questo contatto piccolo con voi, quando mi leggevate in due, tre, forse quattro ed ero già contenta. So che voi pochi ci siete sempre, ci vogliamo bene, ed ora c’è anche altra gente. Ed a dispetto della folla, io ho bisogno di una mia vecchia intimità. Di quella tipica mia delle serate nel fine settimana, da sola a scrivere, a volte a bere qualcosa, a volte fumando ma sicuramente a pensare, per poi tornare a parlarne con voi. Io da questa parte, voi dall’altra del foglio.. aaah, ci riuscivamo benissimo. E facevamo grandi discorsi, a volte pubblici altre volte privatamente, nei giorni a venire, quando con qualcuno di voi ci si incontrava per la strada.

E stasera sono qui a godermi uno di quei momenti, ma con più gente ad ascoltarmi che è arrivata. Sistemo le sedie, vi faccio spazio, datemi il cappotto, perché alla locanda della Druida si sta comodi; e non si sente freddo.

Per chi non lo sapesse: siete in un punto di passaggio tra un viaggio e l’altro, e questa è la vostra taverna del buon riposo.

Stasera vi dedico il mio spazio, qui, usatelo se volete suggerire argomenti, raccogliere idee, domande, o sorrisi(i miei preferiti – quelli veri!), se volete condividere la ricetta di una torta di frutta o raccontare cosa state facendo stasera e cosa invece avreste voluto fare.
Perché questa è la chiave più richiesta per le porte del venerdì: cosa avreste voluto fare.
Eh ma invece siete lì.

Vi lascio qualche minuto con una canzone speciale, perfetta stasera per noi, per voi. Mi raccomando: fate play, chiudete gli occhi e, dopo un paio di giri, avrete cominciato a capire già qualcosa in più.

PLAY 

Io nei primi minuti sono librata in volo, sopra un vasto campo, dentro un cielo chiaro.Sentite le note? Tendete l’orecchio ancora: dopo gli archi.. eeeh sì. Ora la conoscete. Lei è’ il vostro vento, forse. E’ quello che io stavo aspettando, e che in parte è arrivato. E’ quello che mi porterà. Mi sta per portare, mi prende e mi sta per portare, il vento del cambiamento.

Ditemi voi dove andate, dove eravate stasera e dove avreste virato. Io vi aspetto, pronta per parlare ancora una volta con voi.

photo credits: StanOd, To catch a wind

Suad Kamardeen

Il binario 5

(201203120830)

Al binario 5, c’era una storia.

Dico c’era, perché diverse cose sono cambiate, da allora.

E’ passato molto tempo da quello scatto; la foto me la fece una ragazza, all’epoca mia grandissima amica. E’ cambiato anche quello.

Era l’inizio di una mattina senza troppo freddo, non ricordo nemmeno il periodo esatto. Ho una vaga ombra solo dello stato d’animo che mi accompagnava. A dispetto della risata che si vede, ero tristissima. Oserei dire quasi morta dentro, se non fosse che non si può essere morti se si stanno provando dei sentimenti, e ‘tristissima’ è uno di questi.

Però una parte di me era del tutto spenta, e l’altra stava andando a male. Avevo deciso di consumarmi per un amore del tutto sbagliato, o farei meglio a dire per ciò che credevo essere un amore, perché quando le cose non sono giuste, e tu sai che non sono giuste, non dovresti parlare d’amore; piuttosto, di desiderio di riscatto, di bisogno di non dichiarare un fallimento, di voglia di rivincita su te stesso e sul destino.

Ma non è mai colpa del destino. Quello fa la strada che fa.

Non voglio aprire un capitolo sul vero significato degli amori sbagliati. Come in tutte le storie, ci sono eccezioni, e non è adesso la sede per questo discorso. La sede di stasera è il binario 6, quello dove attendevo il mio treno, e nella foto ci è uscito il binario 5.

Non sarà stato un caso. Un altro binario, diverso dal treno che stavo aspettando. Un’altra strada.

Se potessimo aprire gli occhi in tempo per risparmiarci tante pene e sofferenze.. ma sono convinta che ogni cosa accada sempre al suo giusto tempo. Se non lasciamo cadere qualcosa, più che probabilmente non siamo pronti a farlo. Non ci abbiamo preso sufficienti batoste, o non abbiamo abbastanza autostima di noi stessi, anche questa è una possibile interpretazione. Le storie sono piene di possibili interpretazioni. L’angolo dalle quali le osserviamo ci permette solo di vederne una o due sfumature, ma dobbiamo sempre fare i conti con l’essenza che si trova dietro ciò che appare.

Per questo, penso che dobbiamo imparare ad ascoltare. Gli altri, le parole, le azioni -perché sì, si ascoltano anche le azioni-, il nostro cuore, e questo lo dico sempre, per chi mi legge abitualmente non è una novità.

In fondo, noi lo sappiamo se stiamo commettendo una leggerezza oppure no; se una persona ci sta facendo soffrire, o se invece ci fa del bene. Se ci andiamo d’accordo e c’è intesa, o se siamo solo preoccupati dei giudizi del mondo e della paura del poi. Ma con la paura del poi non si va da nessuna parte; a volte nemmeno sul binario sbagliato.

No, con la paura del poi non si parte proprio.

A renderci ciechi ci pensa il terrore verso il punto finale, o verso quello che crediamo essere il punto finale. Che forse è: la proiezione delle nostre paure . la mancanza di coraggio . l’incapacità di assumersi responsabilità . il desiderio di restare Peter Pan . il pensiero dell’altro.

Ah, questo è uno degli errori più comuni.

Ci sostituiamo al pensiero dell’altro.

Stabiliamo una conclusione sulla base dei film mentali che ci facciamo.

E troppo spesso non è così.

E’ quando smettiamo di capirlo che, di colpo, la nostra vita migliora.

Io ho cambiato binario. Il 5 è diventato somma e sottrazione insieme degli errori commessi e del percorso da prendere, quello che vedevo ma che negavo a me stessa.

Ci sarebbe un mondo di cui parlare, da quel tempo ad oggi. Un mondo fatto di intrecci e storie che nemmeno vi immaginate. Un mondo ai limiti del surreale, che da solo varrebbe la trama di un libro, e che non è detto si sia ancora concluso.

Ma non è il finale quello che conta.

Quello che conta, non è dove pensi di arrivare, ma cosa provi mentre vai.

Una volta assunto questo, la parte migliore viene da sé.

palco vasco rossi

Incidente con morto per il palco della Pausini

– Il silenzio di Facebook –

Partiamo dalla foto che vedete sopra.

E’ un particolare di un palco di Vasco. Imponente, non trovate?

Da stamattina ho scritto e cancellato almeno tre status nella mia pagina personale di facebook. Guardo e riguardo la foto di Matteo, leggo i commenti che mi vengono scritti, noto la scarsa partecipazione della comunità e mi dico che non trovo le parole adatte.

Mentre scrivo, ci sono un paio di feriti in ospedale, di cui uno in gravi condizioni.

Dove siamo: a Reggio Calabria, durante il montaggio del palco del concerto di Laura Pausini.

La foto del palco di Vasco la ho messa solo per darvi un’immagine fissa di dove ci si arrampichi quando si lavora a un concerto.

Matteo era un rigger. Vi spiego cosa fa un rigger: è il tizio che si arrampica in cima alle impalcature e appende cose.

I rigger sono pochi, come forse potete immaginare. Hanno conoscenza, esperienza, prestanza fisica, si caricano di pesi e salgono, salgono, salgono. Non è infrequente scoprire che sono scalatori, nel tempo libero.

Prima dei rigger, ci sono altre figure incaricate di montare la ‘base’ del palco, diciamo così. Di questi, un bel numero è a rotazione continua, tanti sono ragazzi universitari o stranieri in cerca di lavoretti e di qualche spicciolo, per turni anche di 20 ore di lavoro continuo.

Cosa è successo durante il montaggio del palco della Pausini?

Boh.

Un cedimento del parquet, dovuto ad un vuoto sotto al pavimento. Una struttura ospitante inadatta. Riduzione del budget per mancanza di fondi. Materiale montato smontato e rimontato continuamente. Riduzione del budget per avidità. Mania di grandezza per mostrare palchi sempre più accattivanti. Modifica dei prospetti per aumentare il numero di posti a sedere da tutte le angolazioni del palco.

Si sta cercando di capire.

Non voglio aprire un dibattito sul ruolo di promoters, organizzatori, artisti, della fatica fisica che accompagna il vostro divertimento, oggi non è il caso.

Voglio parlare della piazza che resta.

Dovete immaginare i vari social networks, in particolare facebook, come una grande piazza di paese, o l’ingresso della vostra scuola superiore; un luogo di quelli dove ci si incontra con la comitiva. Ognuno ha i suoi argomenti preferiti, le sue opinioni, i suoi gusti, il suo modo di esprimersi. Se tizio sceglie di parlare di politica e caio dell’arbitro cornuto, non è che uno sia meglio di un altro, sono solo caratteri ed interessi che emergono.

Poi ci sono quegli argomenti che ogni tanto attirano l’attenzione di tutti. Io con Matteo ho lavorato, quindi è chiaro che ciò che tocca me potrebbe non interessare voi. Non avevo mai lavorato con Francesco, morto a Trieste durante la costruzione del palco di Jovanotti, ma mi ha toccato lo stesso perché la produzione dei concerti è un lavoro che svolgo da molto tempo.

Qualcuno ha scritto che Matteo poteva cadere dall’impalcatura dietro casa e nessuno avrebbe alzato tutto questo polverone  e che, quando capita, capita.

Rispetto questa affermazione.

E mi chiedo:

1) Quando capita, capita? Prego? E no. Non deve capitare.

2) Quale polverone? Il polverone è stato alzato per Jovanotti, questa morte invece non è stata recepita dall’utenza media. Matteo è diventato normale.

Ma Matteo era normale. Era sconosciuto, come l’operaio che vi ha messo le piastrelle nel bagno, come l’idraulico che vi ha aggiustato la lavatrice, come me che a volte ho allestito camerini ed a volte ho contato e gestito una per una tutte le persone che lavoravano ad un concerto.

Per favore, non trattate Matteo come un personaggio famoso di cui non si hanno canzoni da linkare o, peggio ancora, come una notizia già sentita. Lui dovrebbe essere una questione di tutti. Come le specie animali in via di estinzione, la natura che viene bruciata, le tasse che paghiamo, la crisi del lavoro, l’inutile ed incombente 8 marzo.

Ricordiamo Matteo per parlare del poco investimento sulla sicurezza nel lavoro, piuttosto.

Ricordiamolo per parlare dei morti che cadono dall’impalcatura di casa vostra.

Ricordiamolo per parlare di tutti quelli che lavorano in condizioni estreme, in qualunque settore, che prendono 6 euro l’ora ed ai quali si chiede uguale formazione specialistica, che vengono mandati allo sbaraglio dalle ditte nella più totale approssimazione, senza caschetto di protezione, senza scarpe antinfortunistica, senza corde, che vengono spediti sulla neve con i furgoni senza catene né gomme termiche.

Ricordiamo Matteo per parlare dell’avidità che fa risparmiare soldi sui materiali, per evidenziare lo scarso interesse a volte presente nei confronti della vita dei lavoratori: “finché non succede qualcosa nel mio cantiere, chissenefrega”.

Ricordiamo Matteo per guardare ogni tanto oltre il nostro cantiere perché, se uno cade, è come un domino: è facile che dopo cadano tutti. Conosco uno che fa proprio questo di mestiere, sicurezza sul lavoro, e che mi ha detto che non gli interessa affiancare un suo dipendente in un apprendistato, se le cose non le sa sono problemi suoi.

Ecco, ricordiamo Matteo per ricordare l’esistenza di certi individui.

A parlare di lui per chiedere più sicurezza e meno speculazione nell’ambito degli eventi, ed a piangerlo come persona, ci pensiamo noi.

Voi ricordatelo affinché le prossime vittime abbiano sempre meno nomi.

Ed affiancatelo agli altri discorsi che ogni giorno scegliete di fare.

PERCHE’ IL DIRITTO AD UN LAVORO DIGNITOSO RIGUARDA TUTTI.

5 Marzo 2012