uomo raggiunto da un raggio di luce nel buio

Voglio

una casa in campagna

un orto, con le mie verdure e la frutta, che poi vado a vendere al mercato

galline, un gallo. una mucca, pecore e capre. conigli. cavalli bianchi e uno nero. una vigna

una cucina come quelle dei castelli, enorme, con un piano di lavoro centrale grande come un letto a due piazze, e tanti paioli in rame.

un camino e un barbeque

l’arte di fare dolci di scena

un’amaca

una tinozza d’altri tempi dove lavarsi

una pompa in giardino con cui spruzzare d’acqua i bambini pieni di fango prima che entrino in casa

un pavimento in cotto

scale per le stanze da letto dei piani superiori

un salone delle feste come quello di una reggia, per fare ricevimenti

cani e gatti sotto lo stesso tetto

un loft a new york

una casa a valencia

la direzione della tate gallery

la proprietà di un’officina per artisti che diventano famosi solo perché stanno esponendo da me

un laboratorio creativo di nuove invenzioni pensate e messe in pratica fino ad oltre i limiti della creatività dei loro padroni

concept continui di rivoluzione dell’estetica per il gusto del brainstorming

cantare allo stadio olimpico e al royal albert hall mentre tutti i miei colleghi stanno lavorando per me

decidere di non fare un cazzo quando voglio

fare il medico

vivere in costume da bagno

mangiare messicano in messico

stare sdraiata tutto il giorno a bordo piscina

non avere bisogno di cibo

fare il bagno nuda quando nessuno mi vede

e fare il bagno di notte d’estate al mare

uscire sotto la pioggia estiva e bagnarmi, ridere di tutta l’acqua e fare una foto che immortali il momento

distruggere con l’acido le fotoricordo sbagliate impresse in maniera indelebile nella mente

bere vino rosso di buona qualità

avere una fornitura a vita di birra

guidare solo quando ne ho voglia, e una sportiva che corre, corre forte

attraversare la route 66

vivere a las vegas

visitare la nuova zelanda e fermarsi a fare colazione in australia

andare a vedere un igloo

urlare nel grand canyon fino a sentirmi rispondere

un mazzo di rose rosse

o anche bianche

fiori, già, fiori

rifare il viaggio in macchina io e mio zio, diretti non so dove ma vicini al cuore più che mai

andare al ristorante io e papà, non importa se non è una mangiata di pesce come quelle che mi aveva promesso che un giorno avremmo fatto

e non abbiamo mai potuto farlo

tornare indietro a un weekend fa

riavere le mie coccole e i miei abbracci

ridere

ma in fondo basterebbe sorridere, perché ridere è solo momentaneo mentre sorridere, quello è per sempre

dire a tutti quello che penso di loro senza preccuparmi della forma

fare tante partite a shangai e a memory

giocare a cluedo

avere mary poppins al mio servizio perché non ho voglia di mettere a posto la stanza

aprire scatole senza trovare nulla di rilevante o importante che abbia con sé un segno graffiante

non avere dolori sul viso

né occhi gonfi

avere un ristorante

anzi no, una locanda

anzi no, un piccolo albergo, con una cuoca brava e simpatica che sia anche mia amica, qualche stanza ben tenuta e curata nei piccoli dettagli, e qualche tavolo per pochi, dove servire pasti semplici ma gustosi

far vivere d’arte chi se lo merita, perché io non ho talenti, so solo ascoltare

aiutare chi ha bisogno di aiuto a credere nei propri sogni

le foto che ho avuto in promessa

avere risposte

un bastone al bisogno

una mano vicina

un’anima amica del mio cuore

un prato leggero su cui sdraiarmi

un venticello e le sue nuvole che formano disegni da indovinare

essere libera

dormire.

stazione termini interno controluce

Roma, Stazione Termini.

Oggi ero qui. Per caso. Anche quando non scelgo di andarci, devo farlo. A volte mi pare di viverci, in questo posto. E’ tutto così familiare, il dlin dlon, la voce degli annunci, le facce da bar. Non che sia un male, intendiamoci. Il male è non potersi mettere di fronte al tabellone, puntare il dito a caso e dire ‘oggi si va qui’. O il male è non poter prendere il treno che dico io ogni volta che ne ho voglia o ce n’è bisogno. O è non potermi permettere qualche giorno fuori con un amico, o un anno fuori da casa. O forse è solo un momento. Un momento di inquietudine. Un momento molto lungo.

figura osserva l'universo

A come scorre il tempo

(201107220130)

Pensi a come scorre il tempo e a quanto erano diverse le cose.

Pensi che hai fatto progressi, che molto è cambiato. Prendi le vecchie mail, e decidi di fare pulizia. Per ogni gruppo che ne cestini, te ne salta qualcuna all’occhio che decidi di riaprire. Rileggi la tua vita e gli episodi che avevi cancellato. Annuisci con la testa, da solo, incurante se qualcuno ti stia guardando o meno. Ridacchi leggendo dei consigli di un tempo. Corrughi la fronte e inarchi le sopracciglia, quando incappi in qualcosa che avevi voluto dimenticare; credevi già di aver levato tutto, allora ne approfitti e continui la pulizia.  Ritrovi le evoluzioni di certe persone e i loro ruoli nella tua vita modificati. Qualcuno più lontano, qualcuno più vicino. Ritrovi quello che non volevi ritrovare e che ti aveva fatto tanto male. Maledici il momento in cui hai cominciato il giro nella posta. Rivivi ogni colpo. Ti chiedi se davvero la tua vita oggi è differente o se ancora non sai vedere.

Ti detesti.

Ed è qui che rischi di scivolare.

E’ così che potresti commettere gli errori più madornali.

mare e sdraio

Rollio.

(201107210200)

Se ne stava seduto ad osservare il mare con le sue barchette parcheggiate nel molo. Una parte di lui invidiava le persone che stavano prendendo il largo; di lì a poco si sarebbero fatte cullare dalle onde, sotto il caldo sole di luglio. Anche lui voleva prendere il largo. Era sdraiato, su di una strana panchina semi mobile costruita in legno, forse importazione di qualche paese lontano, o forse opera di un maniscalco locale. Era una bella sedia. Ed era un buon cocktail, quello che aveva tra le mani. Guardava le nuvole volare, voleva essere con loro. Ascoltava racconti fantastici e faceva domande su quei mondi che per il resto delle persone sembravano solo inventati. Si chiedeva dove sta il confine tra vita e realtà. Quanto si può cambiare. Se davvero vale la pena cambiare, quali sono le alternative. Rifletteva sull’importanza di non cancellare chi e cosa ha di buono nella vita, solo perché è colto da un momento di inquietudine. Di lì a poco avrebbe finito il suo cocktail, si sarebbe alzato e avrebbe guidato, diretto ai suoi doveri e dolori di sempre. Non tutti i viaggi sono belli. Alcuni sono uno strappo al cuore, qualcosa che vorresti poter fermare, e cambiare, rimodellare sulle tue misure. Per questo se ne stava lì, in attesa dello scadere dell’ora. Se non poteva bloccare il dopo, poteva almeno bloccare l’adesso. Uno sbalzo di sospensione del tempo: lui, le domande, il vento fresco, e l’ascolto suo punto fermo.

photo credits: Giulia Mariutti, Endlich ruhe

sonocombattiva

Sono combattiva.

(201107150800)

Sono nata combattiva. Sono stata costretta a farlo.

Mi sono perfezionata ogni giorno per non cedere.

Più di ieri, sempre meno di domani.

Ho stretto i denti, sono caduta e sono andata avanti.

Sono stata uccisa, e mi sono rialzata.

Non ho mai fatto del dolore uno stereotipo comune.

Mi sono esercitata ad assorbire i colpi più violenti, e non li ho mai messi in pratica.

Semplicemente, ho assimilato.

Ho studiato qualunque cosa, perché conoscere è imparare a difendersi.

Ho imparato a non piangere e a non chiedere aiuto mai.

Ho camminato nel fango, nel sangue e negli sputi di chi ha creduto di umiliarmi.

Sono stata in silenzio quando occorreva, e mai scorretta.

Nemmenoquando avrei avuto il diritto morale di riscattarmi.

Ho soccorso e salvato non so quante persone.

Ho tirato avanti per la mia strada sempre a testa alta.

Ho imparato ad essere riservata.

Sono stata odiata e calunniata, e già solo per questo resto più forte di chi lo ha fatto.

Ho imparato la pazienza. La lunga pazienza.

La saggezza dell’attesa.

L’equilibrio sul filo.

Ho visto chi mi era caro morire.

Sarò combattiva anche questa volta.

letturedellasera

Letture della sera.

(201107150600)

Ogni volta, e dico ogni volta che succede qualcosa, di norma penso che la colpa sia mia. Nel senso: che dipende da me, che devo rivedere un aspetto del mio atteggiamento, che ho sbagliato una sfumatura, frainteso le parole, bla bla. Poi, un giorno, incontro una ragazza che mi dice che lei difficilmente si mette in discussione in questo modo: se succede qualcosa, il problema è semplicemente dell’altra persona. Che non capisce, non vuole capire, non è interessata; lei è chiara nell’esposizione e in quello che vuole. Forse così è troppo: non porsi mai il problema di avere sbagliato è presuntuoso. Ma forse è troppo anche quello che faccio io: pensare che il mondo intero sia giusto e io debba essere in torto e, di conseguenza, ancora più accomodante se voglio riparare. Un altro po’, e non mi si vedrà più, per tutte le volte che mi sono abbassata. Sì, lo so, retaggi culturali di una vita sbagliata. Resta il fatto che, una volta scremate le vicende da possibili influenze infantili ed adolescenziali, la sostanza non cambia: io mi faccio domande, altri viaggiano catatonici nella loro discutibile perfezione. Io tengo il coltello con la lama rivolta verso il basso, altri lo tengono dalla parte del manico. Io mi muovo, altri si siedono. Io dico che ho dei dubbi, altri non li scrivono nemmeno sulle pareti dei loro sogni. Il bello è che, volendo fare una statistica, nove su dieci di quelli ‘altri’ sono spesso convinti di comportarsi nella maniera assolutamente opposta. Il decimo sta dormendo.

Ma è la vita. Qualcuno la sera legge un libro, qualcuno una rivista e qualcuno la sua anima. Ho dei percorsi mentali molto elaborati pronti a snodarsi, ma oggi li lascio in silenzio. Ne traccio solo le prime righe. Dico che la ragazza che, in questa storia, nulla teme del giudizio altrui controbilancia la ragazza che, in questa storia, si impegna per abbattere a picconate ciò che vede nel suo riflesso. Lascio a voi, se vorrete, l’opzione di pensare a voce alta come la cosa continua.

 
letteremaispedite

Lettere mai spedite.

(201107040900)

Quanti di voi hanno scritto lettere che non hanno mai inviato? Lettere rimaste nel cassetto, infilate nella busta e mai affrancate, lettere salvate nella casella bozza dell’email e ammuffite lì. Riaperte ogni tanto per rileggerle e valutarne il contenuto. Quanti di voi si sono interrogati mille volte e poi ancora mille sull’eventualità di farle giungere al destinatario?

A volte le abbiamo scritte solo nella nostra testa. Ne conosciamo a memoria ogni singola parola, saremmo capaci perfino di recitarle, ma solo a noi stessi.

Quelle lettere raccontano i vuoti delle nostre anime. Le paure più nascoste, le paranoie più segrete, che abbiamo confidato, forse, a qualche amico degno di fiducia.

Quelle lettere misteriose sono fogli di carta bagnati da lacrime qua e là, se le si osserva bene si può intravedere l’inchiostro stinto, l’ammaccatura della tipografia sbagliata quando battiamo i tasti a macchina o sul computer, nel concentrato di errori commessi, spaziature mancanti, scambi di posizione tra consonanti, tutto per la fretta.

Perché certa scrittura viene di getto, come quella creativa; con la differenza che di creativo quelle lettere non hanno proprio nulla. Se il loro contenuto fosse inventato, non ci sarebbe nemmeno bisogno di chiedersi se spedirle.

Non ci sarebbe bisogno di preoccuparsi della reazione di chi le riceverebbe.

Quelle lettere sono sempre lettere di dolore. E chiunque ne abbia mai scritta almeno una nella sua vita, sa quanto sia difficile aprire la propria anima ad un cuore che non sia il suo.

Dicono tutte le stesse cose.

Perché non ti ho più cercato.

Perché vorrei chiamarti e mi trattengo dal farlo.

Che ho continuato ad amarti in tutto il tempo che non ti sei fatto sentire.

Che ti amo e continui a non accorgertene.

Dove hai sbagliato.

Cosa ho sbagliato.

Quella volta che mi hai detto.

Quella volta che hai fatto.

Quella volta che avresti potuto fare, e non hai fatto.

Quando mi hai mentito.

Quando ho scoperto che mi tradivi.

Quando ho saputo che mi nascondevi le cose, che è diverso dalla menzogna ma non per questo meno doloroso.

Per tutte le volte che pensavo di potermi fidare di te.

Le paure che accompagnano le mie notti, i sogni che faccio.

Le paranoie che seguono i miei occhi di giorno, tenendosi accesi costantemente in allarme.

L’incapacità di crederti ancora.

Il bisogno e l’espressa volontà di volerlo fare.

Il desiderio di sapere tutto, ma proprio tutto, e diventare: una mosca che ti ronza intorno, un lampo nella tua mente, una zingara con la sua sfera di cristallo.

La consapevolezza di non poter dire davvero tutto. Questa è in ogni riga. Di ogni lettera.

Perché vorremmo che l’altro fosse un libro aperto, ma sappiamo che ogni confessione di insicurezza diventa potenzialmente una mina verso la serenità. Indeboliscei passi e il cammino insieme. Apre un varco che può essere tirato con le mani per vedere cosa c’è dall’altra parte.

Allora ci comportiamo in due modi.

Stringiamo il cappio. Soffochiamo l’altro per desiderio di controllarlo, siamo possessivi, morbosi, lo pretendiamo sempre vicino a noi. Abbiamo bisogno di verificare cosa sta facendo. Se osservassimo bene, vedremmo che così sta cercando di scappare.

Oppure allentiamo la presa. Lo lasciamo andare, libero di muoversi. Non chiediamo spiegazioni. Lo incoraggiamo. Speriamo che, così facendo, non si allontani.

Speriamo, appunto. E’ l’unica cosa che possiamo fare, in entrambi i casi. Perché se l’altro vuole andare, lo farà comunque, sotto il nostro naso o lontano da esso.

A volte penso che meno sappiamo, più la felicità sia garantita.

Ma forse non sono l’unica a vederla così.

Forse è per questo che scriviamo lettere, lettere segrete, lettere incompiute, e le lasciamo a riposare.

Le archiviamo in attesa del futuro, e dei suoi cambiamenti imprevisti. Le lasciamo a memoria dei nostri errori commessi e a confessione di tutti i nostri peccati.

Forse, scriverle ci basta per sfogarci e ricaricarci.

Forse, qualcuna andrebbe spedita.

Di sicuro, qualcuna no.

libertini

Liber(t)i(ni)

(201107010700)

Playboy si nasce, non si diventa.

Non è la teoria del mio ultimo incubo notturno, è il risultato di una ricerca scientifica condotta su un uccellino che si chiama ‘diamante mandarino’. Che carino! Con questo nome, non diremmo mai che si tratta di un volatile fedifrago; semmai dovrebbe attirare le femmine ed incollarle come cozze, secondo la teoria maschile che tutte possiamo essere facilmente corrotte dalla misura del portafoglio.

Il diamante mandarino pare abbia comportamenti simili a quelli degli umani. Ne sono stati studiati più di 1500, per un totale di cinque generazioni consecutive. Ci ha pensato il signor Wolfgang Forstmeier, del dipartimento di genetica evoluzionaria del Max Plank Institut di Berlino, che, dopo averli osservati a lungo, ne ha concluso quanto segue:

“i figli di genitori che tendono ad essere promiscui hanno il doppio di probabilità di esserlo anche loro, anche se bisogna dire che in molti casi anche se si ha la tentazione di tradire questa non viene espressa per altre inclinazioni personali”.

Come dire che se tuo padre lo fa, probabilmente lo farai anche tu.

Ma davvero ci voleva uno studio, per questo? Uno psicologo definirebbe un comportamento del genere ’emulazione genitoriale’. Non si potevano spendere i soldi per curare, che so, le malattie derivanti da queste promiscuità? Invece no, i medici studiano il tradimento, la cosa più squallida e recidiva dell’intero universo.

Diceva qualcuno che tradisce chi è meno evoluto degli altri. Il qualcuno mi trova perfettamente d’accordo.

Come la penso sulle corna ad opera della donna è già risaputo, appoggiato da innumerevoli mie simili, ridicolizzato da (guarda un po’) amici e conoscenti maschi. Ma io sono donna, non vi aspetterete sul serio che attacchi la mia categoria?

Per chi di voi ancora non conoscesse la mia opinione, ne faccio un breve sunto: a mio parere, la donna tradisce per noia. Per mancanza di attenzioni, non monetarie. Per carenza di affetto e di piccoli gesti che le possano ricordare di essere pensata ed amata. La donna può tradire per vendetta, se scopre di essere stata tradita. La donna non tradisce per vanità. Quello lo fa l’uomo. La donna non tradisce per senso di libertà. Quello lo fa l’uomo, che pensa che essere libero significhi accoppiarsi come un animale con cinque donne diverse nello stesso mese (o anche meno). Questo non si chiama essere liberi, ma essere libertini. E’ una variante di poche lettere che rende vana tutta la psicologia pseudomacha che accompagna l’autogiustificazione alle proprie bravate.

L’uomo tradisce, la maggior parte delle volte, perché fa status. Vero, conosco donne che stilano un elenco e fanno le tacchette alla corteccia dell’albero, ma hanno sempre difficoltà a trovarne uno libero perché solitamente tutti gli arbusti sono già stati occupati. Giovanna, Maria, Debora, Milly, Cecilia, Santina (ogni riferimento è puramente casuale – sto inserendo nomi a caso, lo giuro!), siete tutte schedate sull’albero e nella mente degli amici del vostro tipo, le vostre radiografie in bella esposizione.

Nessun commento di tipo sessista, please. Qui non c’è condanna. (Anzi, si fa scienza.)

Io, personalmente, non ammetto né giustifico nessuno di questi comportamenti; dico sempre al mio uomo che, se mai dovesse cadere in tentazione, faccia in modo che io non lo venga mai a sapere. E non ammetto né giustifico nemmeno le promiscuità delle donne. Io preferisco chiudere la relazione piuttosto che complicarmi l’esistenza con una vita parallela e messaggi inviati di nascosto.

Solo, vorrei sapere se esiste anche il gene delle dipendenti da playboy.

Se il signor Forstmeier volesse essere così gentile da studiarci su, mi sentirei più sollevata e non mi considererei anormale.

Perché noi donne siamo davvero stupide, a volte, a non vedere l’ovvio e, peggio ancora, a perdonare. Provate voi a dire a un uomo che lo avete tradito, ci sono alte probabilità che confezionerà un bel nodo scorsoio per il vostro collo e vi sbatterà su youporn, anche se il peggior filmino che avete è quello in cui state dando da mangiare del granoturco ai piccioni nella piazza. Mentre, viceversa, noi molto spesso finiamo per perdonare l’impunito, prive di ogni autostima e, da oggi, supportate dalla ricerca: non è colpa sua, è colpa dei suoi geni.

Allora forse la buona idea per non incastrarsi in certe situazioni io ce l’ho: prima di uscire con il tipo che vi piace, proviamo suo padre.

Una cena gratis ci dirà in due ore il futuro dei prossimi 20 anni, e ci risparmierà un mare di lacrime.